Per Bardo, la cronaca falsa di alcune verità il regista messicano Alejandro González Iñárritu si è fatto cantore di se stesso, decidendo di usare le disponibilità e risorse infinite di Netflix – come già fatto dal connazionale e amico Alfonso Cuarón in Roma e da Paolo Sorrentino in È stata la mano di Dio – per potersi permettere il film che tanti cineasti finiscono spesso col sognare di fare per una vita intera ma senza alcuna concreta possibilità di realizzazione.
Più che un Amarcord, come nel caso dei due film citati, Bardo è però la risposta wanna-be di Iñárritu a 8½ , altro film di Fellini che praticamente qualunque autore propriamente detto vagheggerebbe di rifare alla sua maniera, per di più filtrandolo secondo il suo vissuto personale. Il regista di Babel e 21 grammi vi si è cimentato davvero senza censurarsi su nulla, misurandosi nella sua testa da pari a pari con quel totem, prendendosi sulle spalle oneri e ambizioni che solo un ego spropositato avrebbe potuto reggere e affrontare, e tornando per l’occasione a Ciudad de Mexico, la sua città natale, che non raccontava dai tempi del suo folgorante esordio Amores Perros del 2000.
Il film inizia con l’ombra del volo di uomo sul deserto e mette in chiaro fin da subito un desiderio di volare alto che di lì a poco diventa ancora più manifesto quando si capirà, fin dalle prime battute, che il protagonista di Bardo è un alter ego di Iñárritu, Silverio Gama (Daniel Giménez Cacho, praticamente un suo sosia), noto giornalista e documentarista messicano che vive a Los Angeles e che dopo un prestigioso riconoscimento internazionale vinto negli Stati Uniti è costretto a fare ritorno nel suo paese: un viaggio che non porterà però con sé il dolce conforto della nostalgia, ma una serie di affastellati e tentacolari dubbi sulla legittimità e il senso della sua figura pubblica e delle sue ipocrisie o presunte tali come uomo e come artista, specie in quanto rappresentante e testimone della storia e del vissuto tragico del Messico che però accetta fin troppo di buon grado le lusinghe a stelle e strisce.
In Bardo c’è tantissimo, di sicuro troppo, eppure non c’è in fondo molto di più di questo, al di là di una perizia tecnica strabiliante che tuttavia vanifica quasi sempre se stessa specchiandosi senza pudore nelle proprie manie di grandezza e producendo il calco grottesco e onanistico del vissuto di Iñárritu. Lui, come Silverio, è apprezzatissimo negli USA (Hollywood gli ha tributato ben Oscar alla miglior regia) e utilizza il film come serbatoio inesauribile di incubi e ossessioni, sogni e tarli incorrenti, insoddisfazioni identitarie sul successo, la fragilità della vita e della famiglia, la storia del Messico, l’essere autentici in un mare di ciarpame e di tentazioni e motivi per smarrire se stessi e mollare tutto che non mancherebbero affatto, specie in un’ecosistema di media e racconti infiniti sull’arte e l’ispirazione che non distingue più in nessuna occasione il vero dal falso.
Iñárritu ha confidato al direttore di Venezia Alberto Barbera, che l’ha riaccolto in Concorso alla 79esima edizione della Mostra (dopo la proiezione al Lido ha poi tagliato 22 minuti dalle tre ore del montaggio iniziale, per un cut finale di 2 ore e 32 minuti), di aver cambiato modo di sognare dopo aver iniziato a lavorare al film. Eppure, al netto di un ardore grottesco furibondo e squinternato, che denota un coraggio per certi versi destabilizzante e non comune, la sarabanda risaputa dell’artista che guarda in vitro il proprio vissuto e lo rielabora attraverso il dispositivo del memoir tra sogno e realtà non trova mai, volutamente, un baricentro. Il gusto per la provocazione pepata si rinnova infatti di sequenza in sequenza, di strappo in strappo, con un’idea di cinema mastodontica e orgogliosamente spaccona a fare da collante tra un inserto onirico e l’altro.
Le sequenze con cui rifarsi gli occhi sono beninteso tantissime, di quelle maiuscole e simmetriche, illuminate a meraviglia e quasi da screensaver, con le quali Iñárritu si è costruito la fama di grandissimo facitore di immagini e di assoluta eccellenza tecnica a Hollywood in compagnia col fido direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, qui rimpiazzato da un altro maestro come Darius Khondji (in Bardo c’è una sequenza su una pista da ballo con Let’s Dance di Bowie in versione acustica che rende bene l’idea della tracimazione generale dell’opera, non solo a livello visivo). La sensazione è però sempre quella dell’immaginario di riporto, dell’eccesso costruito ad arte per irridere la norma e il senso della misura più che per puntare a una forma di stupore, gigantismo e malinconia che riesca davvero a riscattare le paturnie masturbatorie dell’autore in chiave universale tra un avvolgente e sinuoso martellamento audiovisivo in piano sequenza e uno sguardo – quasi sempre superficiale e di facciata, oltre che stringi stringi un po’ ipocrita – al colonialismo americano.
Troviamo insomma e in definitiva molto birignao in Bardo, addirittura tanto già visto riciclato, tra auto-citazioni (specchi e balconi, come in Birdman, sono forieri di alcune scene madri) e squarci sensazionalistici, come l’enorme piramide di corpi cadaveri ispirati ai desaparecidos – che ricorda da vicinissimo quella di neonati scalata da Jude Law in The Young Pope di Sorrentino. I fellinismi, tantissimi e reiterati, sono invece ora graficamente pacchiani (il neonato che rientra nella vagina, la pin-up voluttuosa con delle uova al posto dei seni) ora inerti e pomposi nei rapporti coi personaggi di contorno. Tanto da scantonare, alla fine della fiera, in un massimalismo da aforisma a buon mercato («Il mio più grande fallimento è stato il successo») che la dice lunga sull’esito ultimo e l’approdo di questa funambolica traversata, costellata di nevrosi ed epifanie in fondo piccole piccole ma puntualmente ammantate da una grandeur sgraziata e dai piedi d’argilla.
Foto: Estudios Churubusco, Netflix
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