Venezia 73, concorso: la recensione di Spira Mirabilis

Il documentario italiano in competizione è uno studio sull'immortalità in natura, rappresentato da una piccola medusa che continua a rigenerarsi. In sala dal 22 settembre

Venezia 73, concorso: la recensione di Spira Mirabilis

Il documentario italiano in competizione è uno studio sull'immortalità in natura, rappresentato da una piccola medusa che continua a rigenerarsi. In sala dal 22 settembre

La Spira Mirabilis è una figura matematica legata al concetto di logaritmo, appare come una spirale che si avvolge su se stessa senza chiudersi mai al centro. I documentaristi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti la scelgono come titolo e simbolo del loro documentario, in cui si “gira attorno” al concetto di immortalità attraverso cinque storie – ma forse sarebbe meglio definirle cinque suggestioni, o quadri – legate in modo abbastanza pretestuoso ai cinque elementi: fuoco, terra, aria, acqua, etere.

I quadri riguardano una piccola comunità indiana che resiste all’estinzione (i Lakota); la fabbrica delle statue del Duomo di Milano, già oggetto del precedente documentario dei due autori (L’infinita fabbrica del Duomo); una coppia di musicisti e scultori, che creano dal nulla i propri strumenti in metallo, simili a navicelle spaziali; Shin Kubota, uno scienziato giapponese che studia una particolare forma di medusa, capace di rigenerarsi in una forma diversa, e dunque sostanzialmente immortale; e infine una lettura teatrale dell’Immortale di Borges di Marina Vlady.

I cinque quadri si alternano l’uno all’altro senza spiegazioni, provando appunto a creare la suggestione di un allineamento e di una curvatura – una distanza comune, che non si esaurisce mai, da un nucleo di senso esplicito ma al contempo irrimediabilmente misterioso. È un progetto a dir poco ambizioso, mitigato nella sua assoluta mancanza di ironia dallo stile anti-retorico di D’Anolfi e Parenti, che tagliano quasi tutto il parlato e riempiono invece lo spazio con i suoni ambientali (a volte anche irritanti, come nel caso dei due musicisti che provano i loro strumenti, non a caso con delle cuffie nelle orecchie…).

Ne risulta, come già sa chi ha visto i loro due precedenti film, una forma post-documentaria asciutta ed evocativa, a cui è affidato il compito di produrre il senso (o la sua assenza) del mondo più che di raccontarlo, e in cui le molte aritmie richiedono un continuo riallineamento dell’attenzione. C’è insomma bisogno di molta pazienza e disponibilità da parte dello spettatore, la voglia di abitare uno spazio misterioso e di estrarne qualcosa. O semplicemente perdersi. Non è detto che ci si riesca, non è detto che ne valga la pena, è un processo quanto mai personale, ma garantisco che dentro il film ci sono numerosi, piccoli dettagli che restano impressi nella memoria.

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