E facile rimanere increduli e sospettosi: un attore, da solo, che regge un intero film chiuso nell’abitacolo di un’automobile, senza mai interfacciarsi con altri personaggi e con inquadrature sempre in primo piano.
Eppure è uno dei film più belli dell’anno. Insolito e intenso, Locke ti inchioda alla sedia come un thriller. Come si dice a volte, banalizzando? Ah già, un thriller dell’anima, ma questa volta è vero.
L’opera seconda di Steven Knight supera piacevolmente le aspettative. Fidato sceneggiatore per Frears e Cronenberg, eccelle qui nella scrittura, creando un meccanismo virtuoso che coinvolge profondamente lo spettatore nelle vicende di un uomo che va alla deriva per fedeltà ai propri principi.
Con il maglione di lana grossa e la barba arruffata, è difficile riconoscere l’attore che incarnato il Bronson di Refn e il Bane di Nolan, Tom Hardy. Quasi gli desse fastidio essere bello, ha sempre cercato ruoli in cui nascondersi sotto una maschera o dietro una metamorfosi, ma qua fa un’eccezione alla regola e compie un colpo d’ala. Nei panni di un uomo modesto, dalla vita semplice, che di professione fa il costruttore edile e il giorno dopo avrebbe dovuto supervisionare la più ingente colata di cemento d’Europa, per gettare le fondamenta di un imponente grattacielo. Per nove anni ha sgobbato come un mulo, guadagnandosi la fiducia incondizionata dei suoi capi che gli hanno affidato la missione, sapendo di averla messa nelle mani di un uomo affidabile e granitico. Ma il destino è beffardo e se la ride dei nostri progetti: la notte prima del giorno più importante della sua vita, l’uomo riceve una telefonata da una certa Bethan, venuta fuori dal passato con una notizia che farà decidere a Locke di dirigersi a Londra e radere al suolo la sua esistenza come uno dei tanti edifici che ha demolito.
Il film procede per dialoghi dal sistema in viva voce della BMW di Locke: Bethan dall’ospedale di Londra, la moglie Katrina e i due figli che lo aspettavano per vedere la partita, Garreth, il capo arrabbiatissimo per la “sòla”, e Donal, l’operaio agitatissimo al quale Locke è stato costretto ad affidare tutta la complicatissima gestione degli atti finali della procedura per la colata. Tutto qui per 85 minuti circa: Locke che deve confessare il suo “errore” alla moglie, l’ironia con cui incoraggia il suo collega sfiduciato che si tira su con l’alcol, le voci dei bambini che capiscono che qualcosa è andato storto, la voce ansiosa di Bethan, ma soprattutto il dialogo immaginario tra lui e il padre a cui non perdona di averlo abbandonato quando era bambino.
Scena dopo scena, da piccolissimo il film si fa titanico e con esso il suo protagonista: le questione morali con cui Locke deve confrontarsi piegherebbero la volontà di chiunque, ma non la sua, deciso fino in fondo a fare la cosa giusta sempre. Hardy impressiona per maturità attoriale, diventando un tutt’uno con questo eroe tragico dei nostri tempi, ma non cedendo mai al fascino e alla facilità della scena urlata o del gesto irruento, lavorando sempre sui toni bassi, servendo anche battute ironiche nei momenti tosti, modulando la commozione.
La dimensione modesta del budget, i tempi di lavorazione rapidissimi (poche settimane; con sole 8 notti di girato consecutive), dovrebbero essere da esempio per tanti aspiranti registi. La dimostrazione che quando un testo funziona, non c’è bisogno di chissà quali barocchismi o idee forzatamente originali. Ridotto ai minimi termini, Locke si interroga sulla questione dell’assunzione di responsabilità delle proprie azioni e nello stesso tempo ci mette di fronte alla fragilità delle “costruzioni” dell’uomo e alla nostra illusoria convinzione di poterle gestire come se fossero edificici di cemento.
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