Tra le vie residenziali della Londra benestante, Anne (Olivia Colman) si reca a far visita al padre Anthony (Anthony Hopkins) nel suo appartamento. L’uomo, ottantenne, si rammarica quando la figlia gli annuncia un imminente trasferimento a Parigi per raggiungere l’uomo che ama, e chiede cosa ne sarà di lui. Poco dopo, sempre in casa sua, Anthony trova un uomo seduto, che legge il giornale e sostiene di essere il padrone di casa e il marito di Anne. C’è anche un’altra donna che dice di essere la stessa figlia di Anthony, ma non le somiglia, e da lì a poco cambia anche la casa e gli ambienti, che diventano un altro posto.
Il protagonista di The Father – Nulla è come sembra si chiama Anthony, come il suo interprete. Ma non finisce qui: anche la data di nascita di Hopkins è la stessa del suo personaggio, 31 dicembre 1937. Per il regista Florian Zeller la presenza del grande attore de Il silenzio degli innocenti era una condizione essenziale per realizzare il film, e la cosa non stupisce affatto: The Father è infatti un lavoro sulla mente, certo, sulla malattia, sul deperimento intellettuale di un uomo che è stato vivace e lucido e si ritrova a fare i conti con l’invecchiamento. Eppure non può prescindere dal corpo, dalla fisicità, dall’esposizione orale delle parole, dal lavoro sugli attori cui è richiesto un tour de force silenzioso ma eccezionale.
È un piccolo grande catalogo di minuzie e ossessioni, ma possiede anche, come sguardo, il cinismo intelligente e aggraziato per gettarsi alle spalle tutto, per mettere la polvere sotto il tappeto senza rimpianti, per commuovere senza ricattare e fare del pietismo. E per lasciare che sia lo spettatore, lentamente e inesorabilmente, a venire a capo di tutto, a sbrogliare la matassa.
Il film è tratto da un lavoro teatrale ma è, al contempo, perfettamente cinematografico nel linguaggio. Il drammaturgo francese Florian Zeller mise in scena per la prima volta la sua pièce intitolata Il padre nel 2012. Dal debutto a Parigi l’opera acquisì presto un notevole successo internazionale grazie all’adattamento in lingua inglese di Christopher Hampton (sceneggiatore del celebre Le relazioni pericolose di Stephen Frears) e nel 2015 Philippe Le Guay portò sul grande schermo il testo di Zeller con Florida.
Quest’ultimo film, che è anche l’esordio alla regia di Zeller, tira fuori però in maniera apocalittica e definitiva, ma anche struggente e stritolante, tutte le potenzialità in serbo nel testo. Il montaggio di Yorgos Lamprinos in questo caso è un significante fondamentale, perché costringe dolcemente chi guarda a sposare lo sfasamento percettivo, il punto di vista, lo sbalestramento, l’assenza di certezze e perfino i sintomi di un uomo malato di Alzheimer. È come un mind-game film postmoderno, sulla carta, eppure l’arzigogolo linguistico del cinema al quadrato non c’entra nulla, tutto nella messa in scena è antico, spoglio, quasi novecentesco: a svettare sono soprattutto la semplicità, la schiettezza e la commozione di un linguaggio e di un codice emotivo universale, leggibile a tutti i livelli, immediatamente.
Un film così, divulgativo ma non per questo non sofisticato, si nutre di orpelli della messa in scena che non sono meri vezzi o appigli, ma coincidono spesso col cuore del discorso: il rapporto di Anthony con la giovane badante Laura, le arie di musica classica ascoltate in punta di piedi, la cucina illuminata da una luce fioca eppure espressionista, i frammenti di vita che sono anche frammenti di senso. La precisione spaziale e architettonica degli interni borghesi è poi frutto del lavoro di pregio dello scenografo Peter Francis: un involucro nel quale lo spettatore di The Father si ritrova incastonato come in utero materno, col mondo di fuori (ancora) sconosciuto e attutito. Una scenografia solo in apparenza lineare e rassicurante, che in realtà risulta perfetta anche quando l’ordinarietà deve lasciare posto al perturbante.
The Father, che ha un finale in grado di regalare un singolo fermo immagine mosso dal vento così potente da rimanere tatuato a lungo nella memoria, è prima di tutto uno di quei film che spostano un po più in alto l’asticella della grande recitazione. Non a caso tira fuori da Olivia Colman tutto il calore, la fragilità e le lacrime che in altri suoi ruoli è bravissima a dissimulare e da Anthony Hopkins un’interpretazione non meno che monumentale, che spazza via in un colpo solo anni di film appannati, accatastati uno sull’altro spesso solo per fare volume: una prova che dà al suo Anthony una verosimiglianza incredibile, un po’ dentro e un po’ fuori dalla realtà, in bilico su un confine labilissimo tra la dolcezza della rievocazione e la crudeltà della perdita.
Foto: F comme Film, Trademark Films, Cine@; BiM Distribuzione
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