Ho appena ucciso una zanzara. Per farlo, ho dovuto applaudirle. Con forza. Mi sembra che stiano facendo la stessa cosa con quelli che fanno il mio mestiere: ci applaudono, con forza, per ucciderci. E forse, ci considerano come le zanzare: fastidiose, inutili, causa di incredibili e variegate bestemmie notturne. Fantasiose, talvolta. Le bestemmie, dico, non noi zanzare. E sono tutti convinti che avanzino a nugoli. Invece siamo soli. Continuano ad applaudirci, ad applaudire il nostro lavoro, in questo continuo stillicidio che è fare il nostro lavoro in questo periodo. Ma non ci fermano. Perché siamo dei sognatori. E come diceva Conrad, viviamo come sogniamo. Soli.
Abbiamo deciso di fare della vita un sogno e di un sogno la vita. Sogni. È così che li chiamano. Quando non sanno come distrarci, ci ricordano che inseguiamo farfalle dalla vita breve, e ci guadagniamo quell’epiteto che ci marchia a fuoco: “colui che insegue un sogno”. Impariamo presto a sognare ad occhi aperti. A restare svegli anche in fase REM, a bruciare oniricamente anche col carrello della spesa, sull’autobus, per strada, passeggiando attaccati a un marciapiede per forza di gravità, e alle nuvole per necessità. Impariamo a riconoscere un nostro sodale, a bruciare con lui per poi abbandonarlo ogni sera, ogni volta, dopo ogni viaggio abbracciati stretti, come se in fondo a questo fiume la cascata potesse non lasciarci scampo. E scendiamo giù forte, sempre più forte, incontro a un destino ignoto. E poi, il giorno dopo, siamo di nuovo lì, a ricominciare. Sogni, li chiamano così. Ed è quello che ci ripetiamo ogni volta che qualcuno usa l’avverbio “abbastanza”, che quando non vuol dire niente per noi significa tutto. Come quando cadiamo, e ci rialziamo. Perché nessuno potrà togliercelo, perché nessuno può disturbare la tela di ragno infinita in cui ogni mosca della nostra vita cade e ci rifocilla. E ne arrivano dieci, mille, infinite. E ogni volta ricostruiamo con un fi lo sottile, una vita che solo noi saremo in grado di sbrogliare. Sogni, li chiamano. Noi sappiamo. E cresciamo. E diciamo “obiettivi”. E poi “scadenze”. E poi “mai”. E poi “per sempre”.
Sogni, li chiamano, e noi ci adeguiamo, perché anche se non sappiamo perché, e anche quando non abbiamo idea di quando, e forse alla fi ne, non ne conosciamo mai fi ne. E ci siamo. Un muscolo dopo l’altro. Tesi come quell’arco da cui scocca una freccia tutte le volte che chiudiamo gli occhi, per riaprirli ogni giorno come fosse il primo dell’infi nito. Sogni, li chiamano. E noi non ci adeguiamo. Perché se il calabrone vola senza poterlo fare (perché non lo sa), a noi continuano a ripetercelo, che le nostre ali non sono abbastanza grandi, che non siamo conformi, che siamo deformi, che siamo sbagliati. E non è nemmeno il calabrone, l’insetto che non può volare. È il bombo. Che vola eccome, ma non come un aereo. Come un elicottero. Si è adeguato a fare del suo corpo uno strumento. E a volare. Come faccio io tutti i giorni. Come fanno tanti come me. Che dobbiamo vivere da soli una serie di eventi, uno più diffi cile dell’altro. Ma abbiamo imparato a chiamarli sogni, questi eventi. Questa fatica. Questa paura. Questa incertezza. Questo.
Voi non smettete di applaudire, però. Noi impareremo a schivarvi. Non ci svegliate. Non ci riuscireste.
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