Siete il mio “più uno”

Siete il mio “più uno”

Il giorno più felice della mia vita, pioveva. Forte. Era agosto, era Locarno, era il 2017 e pioveva. Forte. In un van, andavamo verso la sala coperta più grande del festival di Locarno e io e Andrea Magnani eravamo in silenzio. Il Palexpo ospita 2800 posti. Noi ci chiedevamo se sarebbero venute cento persone. Squilla il telefono di chi ci accompagnava, nel van. Parla tedesco, non capiamo. Dice solo “sold out”. Non parla di noi, pensiamo. Parlava di noi, dice. Il silenzio scompare. Arriva la paura. L’ansia. Il respiro fermo. Il battito accelerato del cuore. L’incredulità. Tutta roba che fa rumore. Tantissimo. Che urla nella mia testa, più forte della pioggia che sbatte sull’ombrello. Più forte dei passi con le mie Nike disegnate apposta con scritto “Easy” sulla linguetta che saltano a fatica da una pozzanghera all’altra. Più forte dell’applauso dopo la presentazione. E poi comincia il film. Due anni di attesa. Di russi e ucraini in guerra. Guerra. Guerra dove la gente muore, si spara, a due ore di aereo da noi. Di “Nicola, non si parte più. C’è la guerra. Tutti i fondi del governo sono dirottati lì”. Di “Sto partendo con la preparazione del mio altro film, ormai Easy non lo facciamo più…”. Di “Mi spiace tanto, so che ci tenevi…”. Ci tenevo? Era il film della vita. Lo era. Dalla prima volta che l’ho letto, alle quattro di notte, che poi l’ho riletto e ho chiamato il regista per dirglielo, pensando di colpirlo tantissimo e svegliarlo, e invece era in Nicaragua ed era mezzogiorno, figurati. Che era un capolavoro e potevo solo rovinarglielo. Ma che avrei sputato ogni goccia di sangue per non farlo. Ci tenevo. Perché quando leggi una sceneggiatura lo sai. C’è poco da fare. C’è solo da mettersi in pare col cuore. E il cuore era caldissimo. E poi la guerra. E poi un altro film sbagliato. E poi una scelta infelice. E poi, e poi, e poi è stato come morire. Non ne posso più, smetto. Ma mentre facevo le valigie, il ministero della cultura e del cinema ucraino si è stufato di associare a Kiev la parola guerra e ha deciso che riuscivano a staccare un pezzo di budget dalle armi e dal sangue su quel ponte, per rilanciarsi. E allora via alla prima produzione con l’Italia. E allora si parte, ma si parte ora, ci sei? Era l’ultima fiche. Era la mano giusta? La pallina girava ancora, lì nel Palexpo di Locarno, fino all’ultima battuta e poi il buio. Applauso. Forte. Lungo. È uscito il mio numero. E io respiro tutto l’ossigeno che non sapevo potesse entrare nei polmoni. Alla mia sinistra il corridoio, nessuno. Alla mia destra, una sedia vuota. L’ennesimo “più uno” bruciato da una vita precaria, dall’incapacità di cucirsi addosso a una relazione. Il sentirsi sempre a metà. “Tu mi completi!” Dice Tom a Renée. “Mi avevi convinto al ciao”, dice lei. Io, quel “tu mi completi”, non posso dirlo a nessuna. Solo. Eppure felice. Libero. Eppure solo. “La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza”. Solo. E felice. E libero. E poi solo. È un lavoro bellissimo. Ma se lo fai bene, e il giorno dopo hai sveglia alle sei, la sera prima sei con una tisana a rileggere le scene per essere all’altezza. Per non essere un peso. Per non rovinare niente. Perché se lo fai bene, sai che hai lasciato moglie e figli a casa, lontani, e tu sei in un albergo sperduto a guardare il soffitto e a chiederti se hai davvero dato tutto in quella scena lì, che ci pensi ancora. E al sangue che mastichi, del giorno appena passato. Io l’ho sputato, il sangue, sul set di Easy. Letteralmente. Ho rischiato di morire. Eppure ne è valsa la pena. Eppure.

L’ultima battuta del film è : “E adesso che faccio?”

Adesso rileggo le scene di domani, che ho sveglia presto. E mi chiedo per tutto il tempo se sono all’altezza della troupe, dei miei colleghi, dello script, e della vita a cui rinuncio centimetro dopo centimetro per poterne fare una in affitto, finta, sui tappeti rossi e alle feste in cui entri senza un “più uno”. Che domani inizia un altro film della vita. Perché è come l’amore: ogni volta ci credi, che sia per sempre. Che sia la donna della tua vita. E poi lei ti lascia e tu pensi che non ci sarà mai più nessuno. Eppure, una sera ci sbatti contro. E pensi che sarà di nuovo per tutta la vita.

Ed è vero. Forse. Che dici più volte “ti amo” in scena che nella vita. O perlomeno sei più credibile. Dicono.  Eppure ne vale la pena. E in quell’eppure ci sei tu, che ora leggi questa rivista. Che ti emozioni, che piangi, che ridi, che ti commuovi, che pensi. Non smettere mai di farlo. Sei il mio più uno. Sei il mio eppure. Sei tutti quelli che applaudono per riempire quell’unico posto vuoto. Siamo nelle tue mani, Bastian. Ti aspetto in groppa a Falkor. C’è spazio per tutti.

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© Fresh Production, Pilgrim Film, Bartlebyfilm

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