Da qualche giorno Roma è teatro di un evento singolare: quando piove condotti e tombini tracimano con una melma grigiastra ed esalano un vapore denso di cui non si conosce l’origine. Nessuno può immaginare che chiunque respiri questo misterioso vapore dovrà farà i conti con ciò che reprime, i suoi istinti più oscuri, la sua rabbia. Neanche la famiglia Morel, composta dal papà Thomas (Fabrizio Rongione, attore belga naturalizzato italiano amatissimo dai fratelli Dardenne), che fa da badante a un saggio anziano (Orso Maria Guerrini, volto della birra Moretti), e dai figli Enrico (Francesco Ghenghi), che intrattiene rapporti frequenti con una prostituta di mezza età nella quale ricerca il fantasma della madre, e Barbara (Aurora Menenti).
Dopo il film d’esordio A Classic Horror Story, co-diretto con Roberto De Feo, il 29enne Paolo Strippoli esordisce alla regia in solitaria con Piove, horror familiare – nel senso più ampio, pieno, destabilizzante del termine – ambientato in una Roma cupa, nervosa e costantemente sul punto di esplodere e nato dalla scrittura di Jacopo Del Giudice, vincitore della 32° edizione del Premio Franco Solinas (una storica prima volta per un horror in questo prestigioso riconoscimento), autore della sceneggiatura insieme allo stesso Strippoli e a Gustavo Hernández.
Piove si apre con un prologo di grande impatto visivo accompagnato da Aria di neve di Sergio Endrigo: una scelta di colonna sonora non da poco che restituisce immediatamente il tono di un’opera al contempo dolcissima, visionaria e crudelmente alienante, proprio come il testo e le note di quel capolavoro musicale. Dopodiché il film imbocca immediatamente una strada tutt’altro che rassicurante e a dir poco accidentata, facendosi largo nella rivoltante e oscena rabbia di un nucleo familiare sopravvissuto a una tragedia con una grazia impalpabile, addirittura gassosa, e non è un caso: proprio un gas avrà un ruolo fondamentale nella storia, oltre a scandire idealmente i titoli della divisione in capitoli – quattro: evaporazione, condensazione, precipitazione, infiltrazione – a partire tuttavia dall’acqua, altro elemento fondamentale tanto nell’economia drammaturgica quanto nella sostanza onirica di incubi vividissimi.
Piove segna una nuova tappa nelle possibilità e negli scenari produttivi del nuovo e più ambizioso cinema italiano che si prefigge di lavorare sul fantastico, ben più profonda e articolata di quanto i palloncini alla IT di molte immagini promozionali lasciavano intendere (siamo più dalle parti, semmai, di Fog di John Carpenter). La messa in scena procede infatti per brandelli di sincopata visionarietà e dimostra un’eccezionale sensibilità nel lavorare singolarmente su dettagli specifici: oggetti e angoli di mondo che vengono sottolineati dalla macchina da presa per generare, di fatto, i correlativi oggettivi di un perturbante che viene fatto risalire a una misteriosa e apocalittica idea di catastrofe su larga scala, con uno sguardo d’insieme allargato anche ai social, ai media televisivi e a una messa a fuoco viscerale e personale degli strascichi della cronaca vera sulle vite di persone reali e al contempo immaginarie, astratte e concrete insieme (le lacrime nere del finale, per ammissione stessa del regista, traghettano l’epilogo verso i corpi disfatti e contorti di Francis Bacon).
Questo procedimento stilistico, tutto estetico in buona sostanza, ha il limite di rimandare con marcato formalismo più all’autorialità dura e pura che al cinema popolare e di genere, ma l’ibridazione tra i due linguaggi si fa addirittura sensazionale quando mette da parte ogni calligrafia e accademismo rispetto al cinema già visto e già digerito per lavorare sulle storpiature vocali, su una maternità acquatica, melmosa e mostruosa, sull’inferno del rimorso scandito dalla condanna a rivedere riflessi – allo specchio, all’infinito – se stessi e i propri traumi reconditi più intimi e inconfessabili.
Foto: Propaganda Italia; Polifemo; Gapbusters
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