Geppetto, un falegname vedovo che vive nella grigia Italia fascista, ancora soffre per la perdita del figlio Carlo a seguito di un bombardamento durante la Grande Guerra. Una sera, ubriaco, abbatte un albero vicino alla tomba del figlio e da quel legno, costruisce (ancora sbronzo) una marionetta dagli imperfetti lineamenti e il lungo naso, che chiama Pinocchio.
Una fata, accorgendosi che l’anima di Carlo si è reincarnata nell’albero, dona vita alla marionetta e istruisce il grillo che viveva al suo interno, Sebastian, di fare da guida a Pinocchio. Geppetto è sorpreso di ritrovarsi un nuovo figlio a carico, ma Pinocchio nota nel creatore una certa malinconia derivante dal suo rimpiazzare Carlo, così parte in giro per il mondo per imparare ad essere un figlio migliore per il suo genitore.
Il Pinocchio che Guillermo del Toro ha tratto dal classico letterario di Carlo Collodi, mettendo il suo nome già come firma in calce nel titolo e dirigendolo insieme a Mark Gustafson (responsabile delle animazioni di Fantastic Mr. Fox), si propone come meditazione più sofferta rispetto ad altre trasposizioni del libro. Il burattino di legno è infatti schiacciato dal confronto con un fratellino, tanto perduto e defunto in tenerissima età quanto ingombrante, e il film animato in stop in motion sembra, a partire da questa premesse, screziare di malinconia tutte le sue traversie e proverbiali disavventure (c’era già un adattamento russo del 1939 realizzato in animazione “a passo uno”, diretto da Aleksandr Ptushko, con i personaggi umani interpretati da attori).
La passione per Pinocchio accompagna il regista di Nightmare Alley e La forma dell’acqua da sempre, tanto che adattarlo era un suo sogno nel cassetto e un capriccio personale al quale teneva molto. La dimensione musicale da cartone animato Disney, veicolata dalla presenza di canzoni, si accompagna però allo spirito più cupo e dark caro all’autore di Crimson Peak, con un’osmosi spesso fruttuose tra queste due componenti, che tendono a influenzarsi reciprocamente e a delinearsi ognuna seguendo il modello offerto dalla silhouette cangiante dell’altra (la Fata Turchina è una Sfinge pagana, per esempio, ma quasi tutte le creature, dal grillo ai conigli, hanno una pelle blu-violacea che rimanda all’ultraterreno).
Ciò che ne viene fuori è un cartone animato da un lato lato limpido e classico, ma puntualmente sbilanciato verso una mostruosità che è ora tenerezza per i freak di stampo burtoniano, ora dolce gigantismo, ora racconto dolente delle macerie e dei detriti anti-favolistici (e proprio per questo da visualizzare in chiave doppiamente fiabesca, più reale del reale) che la guerra lascia con sé, come ne Il labirinto del fauno, tanto che il Paese dei balocchi è addirittura rifatto sotto forma di caserma militare e tanti elementi, anche i più rassicuranti sulla carta, acquisiscono moltiplici prospettive possibili in termini di pietà e orrore a misura di compassione (non stupisce, per un regista abituato a piazzare svariati occhi su diversi angoli e punti dei suoi corpi).
Ron Perlman, che interpreta Mangiafuoco (una fusione del personaggio col Gatto e la Volpe che purtroppo è il vulnus più vistoso e controproducente di tutta l’operazione, ma anche il suo azzardo più evidente), lo ha dopotutto così descritto così in un’intervista: «Il Pinocchio di Guillermo è ambientato nell’Italia di Mussolini, che è uno sfondo fascista. Il punto del film è che Pinocchio è il soldato perfetto perché non è umano, non mette mai in discussione gli ordini. Non ha paure. È invulnerabile. È tutto ciò che un soldato perfetto deve essere» (accanto al lui, nel cast vocale, Ewan McGregor/Grillo; David Bradley/Geppetto e l’esordiente Gregory Mann/Pinocchio, ma anche i vari Finn Wolfhard, John Turturro, Tim Blake Nelson, Burn Gorman e i premi Oscar Christoph Walt, Tilda Swinton e Cate Blanchett).
Quello di del Toro è un Pinocchio che presenza in definitiva, oltre che una collocazione storica singolare e inedita ma perfettamente cesellata, una doppiezza familiare negata e tradita dalla morte; accanto al celebre burattino c’è un altro fratello che non vediamo e che pure fornisce una rilevanza ancora più fantasmatica, al contempo dolcemente e sottilmente inquietante, al suo legno chiamato a farsi carne, in una replica impossibile dello spirito che è andato perduto e della vita che il fato cinico e implacabile si è lasciato alle spalle: un bambino post-umano, dalle paure azzerate (in Chiesa non teme un Crocifisso ligneo come lui) e dalla corazza indistruttibile, in grado di sopravvivere al tempo che passa e al giogo della morte e di amplificarne così, per struggente contrasto (gli occhi di Geppetto, irrorati di lacrime fino a traboccare copiosamente, davvero non si dimenticano) l’umanissima precarietà.
Foto: Netflix Animation, Jim Henson Productions, Pathé, ShadowMachine
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