Ogni volta che un nutrizionista prova a mettermeli nella dieta sono categorico: accetto la scomparsa del carboidrato (mio solo signore e padrone), ma togli quegli yogurt. Ne ho visti troppi, per amarli ancora. Prima di entrare al centro sperimentale, lavoravo in una piccola radio del sud, affiliata a una radio enorme del territorio nazionale. Per quella nazionale facevo le interviste ai grandi nomi della musica italiana e i grandi eventi. Tipo Sanremo, insomma. E dal 2003 al 2005 sono andato proprio a Sanremo a intervistare chiunque. Con la radio piccolina, invece, facevo tutto l’opposto: mettevo solo musica brutta, ma proprio brutta, bruttissima, orrenda, incredibilmente brutta: la musica dance commerciale italiana.
Era uscito L’amour toujours e per me era stato una folgorazione. Ehi, è ancora uno dei cinquanta album più importanti della storia della musica! Solo che a vent’anni pensavo che fosse, in quella classifica, il primo. Amavo quella cosa. Che non posso chiamare lavoro perché non mi pagavano. Di lavoro vero, coi contribuiti e le tasse pagate, mettevo a posto gli yogurt la mattina all’Ipercoop di Andria. Dalle sei di mattina alle otto e mezza. Tutti i giorni. Avrò sistemato milioni di vasetti, spostato in avanti quelli che scadevano prima e caricato quelli a scadenza più lunga dietro. Ancora mi sogno le centinaia di referenze: ma chi cazzo lo mangia lo yogurt bianco, magro, senza zucchero e senza lattosio? Ma perché? Era questa la domanda la mattina all’alba, che ci fosse il gelo o l’estate di fuoco, ogni volta, entrando nella cella frigorifera per cercarlo, quel maledetto yogurt triste. Perché tu che lo mangi, sei triste. Io non lo ero affatto. Anzi. Mi piaceva.
Ho imparato tantissimo, in quei due anni: la disciplina, l’etica del lavoro, il rispetto, quanto un ambiente di lavoro positivo ti faccia lavorare meglio, come si sopravvive anche agli stronzi, che la gente alle volte mangia degli yogurt talmente tristi che forse, alla fine, qualcosa di buono devono avercela per forza. E poi, soprattutto, il rispetto della gerarchia: capo corsia, capo settore, vice capo reparto, capo reparto, vice direttore, direttore. Chiunque si svegliasse male in questa catena, aveva qualcuno con cui prendersela sotto di lui. Tranne noi che eravamo sotto di tutti. E ho imparato a non sbagliare, ad abbozzare, a sorridere ma anche a difendere le mie ragioni, il mio lavoro, i miei sforzi, il mio tempo. Insomma, sono l’attore che sono perché mettevo a posto gli yogurt all’Ipercoop di Andria. Il talento, quello, c’era già. Andava sgrezzato, educato, valorizzato, amato, rispettato, protetto, lasciato libero e contenuto, armonizzato, gestito e instradato. E non avrei potuto mai farlo senza quel bastardo di yogurt bianco, magro, senza zucchero e senza lattosio.
Trovate il vostro yogurt deprimente, detestatelo, ringraziatelo tantissimo e poi mangiatelo. Scoprirete che non è poi così brutto come credevate. Questo è il mio nuovo buon proposito per l’anno nuovo. Mangiare uno yogurt. Vedere tanti film non meravigliosi, non esattamente di mio gusto, ma che hanno tutti i motivi per star lì, nel mercato. In sala. Magari a riempirla, la sala. Continuerà a non piacermi, ma avrò imparato ad apprezzarlo. E poi sceglietevi il vostro gusto. Che la vita è troppo breve per passarla a vivere il sogno di qualcun altro. Bella, eh? Di chi è, di Oscar Wilde? No, Hugh Hefner. Sì, quello di Playboy. Buon anno e ora, sempre e per sempre: Belushi, vive!
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