Un umile inserviente, costretto a prendersi cura della madre malata, trova una borsa piena di soldi in un armadietto della sauna dove lavora. Ignora però che dietro alla borsa si nasconde un intreccio di storie di spietati malviventi ed esistenze miserabili: un doganiere indebitato, un feroce strozzino, un’astuta truffatrice, una giovane escort con un marito violento e un immigrato illegale si danno la caccia nel tentativo di mettere le mani sul denaro. Tra omicidi, tradimenti, colpi di fortuna e sfortuna i loro destini s’incrociano, cacciandoli in guai sempre più profondi, in un disperato gioco senza esclusione di colpi.
Nido di vipere (Beasts Clawing at Straws il titolo originale, letteralmente “bestie che si aggrappano alla paglia”), thriller sudcoreano diretto da Kim Yong-hoon ora nelle sale, già passato al Far East Film Festival e vincitore del premio speciale della giuria nel concorso Tiger di Rotterdam, è tratto dall’omonimo romanzo del giallista giapponese Keisuke Sone, adattato per il grande schermo per un pubblico coreano. Il film, opera prima del suo regista, mette in scena tre storie con quattro protagonisti e un’ambitissima borsa Louis Vitton che passa di mano in mano: il classico MacGuffin dal sapore pulp, dalla cui prospettiva la vicenda è non a caso direttamente messa in moto e che serve a scompaginare e rimodulare certezze ed equilibri, fino a far saltare completamente il banco.
Rispetto al libro c’è un personaggio, quello interpretato dall’attrice Jean Do-yeon, che appare solo a metà film, mentre quello incarnato dall’attore Jung Woo-sung non è un poliziotto come nel romanzo bensì un funzionario pubblico. Tutta l’operazione, sul piano cinematografico, è giocata sul mistero e sul depistaggio, oltre che sulla grigia casualità del male connesso da uomini più o meno insospettabili. Si lavora su un’ambiguità che è sempre semantica e strutturale, propria di quel lavoro di false piste e polverizzazione di dettagli solo in apparenza irrilevanti che sulla pagina scritta hanno un determinato tipo di fascino e sul grande schermo molto spesso ne acquistano un altro, meno strettamente legato alla detection e più al perturbante e all’inconoscibile, tra tatuaggi, cadaveri e ghigni beffardi dei quali non si intravede l’origine diretta.
Nido di vipere è però soprattutto un noir a incastro, un figlio postumo – ma tutt’altro che illegittimo, invecchiato male e fuori tempo massimo, nella sua smagliante pulizia formale e nella feroce attualità morale delle pulsioni rappresentate – del cinema postmoderno degli anni ’90, con dei piani temporali sfalsati in virtù dei quali per capire chi conosce chi e cosa è successo prima occorre arrivare alla fine del film, ambientato oltretutto in una città portuale (Pyeongtaek) nella quale i destini dei personaggi sembrano fluttuare e scambiarsi con cieca e casuale indifferenza e i vari livelli del racconto somigliano spesso a piattaforme e stazioni tra loro intercambiabili. Quello di Nido di vipere è anche un paesaggio grottesco di maschere viziose e malfidate, nel quale lo sguardo entomologico sul paese («In Corea le autopsie sono solo il 4% del totale», viene detto) e sulla guerra che lo segnò coincide con una carrellata di bozzetti a tinte fosche, simili a embrioni pronti a cannibalizzassi in un unico ventre materno (e matrigno) che li accomuna e li avviluppa l’uno all’altro, con la minaccia costante di stringere il cordone ombelicale come fosse un cappio.
Lo humour cruento e sarcastico e l’impianto di sceneggiatura, un affresco polifonico di diverse gradazioni e sfumature, ricollegano ovviamente Nido di vipere al Tarantino delle valigette e ai fratelli Coen, Fargo in particolare (mentre l’uso delle sigarette Lucky Strike è più deliberatamente tarantiniano), ma rispetto a quell’idea di commedia nera del fu “regista a due teste” c’è una stilizzazione meno filosofica e più virata verso i dettagli grafici e la brutalità da fumetto. Un elemento con l’approssimarsi della conclusione si fa sempre più marcato, azzardando perfino lo slancio del macabro e sanguinario action painting e chiudendo il cerchio di una spietata catena alimentare nella quale il prossimo pollo da spennare è sempre, puntualmente the next big thing alla quale tendere.
Foto: Wild Bunch
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