La maglia termica, la camicia di flanella, il maglione di lana. Il giaccone, pesante. La sciarpa, i guanti e il berretto. E la neve addosso. Finta. Che si appiccica male addosso impastata al sudore. Il 18 di agosto. A Roma, dentro un capannone, o come ci piace tanto chiamarli, un “teatro di posa”, il più teatro di tutti i teatri, il numero cinque, di Cinecittà. E la cipria che si mischia con un sudore impossibile da tenere a bada, perché i condizionatori sono spenti, come vuole il fonico, prima del Covid. È agosto, uno dei più caldi di sempre, ma deve sembrare pieno inverno, freddo. Talmente tanto da far ghiaccio per strada e farci sbandare, ma questo lo giriamo a Ferrara, tra tre settimane, con la neve finta sparata dai cannoni e il green screen. E allora tampona, tampona, tampona. Tampone. Come quello che ogni settimana sembra ti arrivi al cervello, dal naso, una e poi due volte. Ho fatto, ho fatto, dice l’infermiera mancina, sempre lei, e ogni settimana è più veloce e più accurata, e ogni settimana ne ha fatti centinaia in più. E abbassi solo un po’ la mascherina, ti dice. E tu lo fai. E aspetti che reagisca, e reagisce con una linea sola, e torni sul set, e torni al lavoro. Negativo, tutto a posto. Alzi la mascherina, bene, igienizzando le mani ogni mezz’ora, cambiando il tuo filtro dal mondo ogni due. E niente abbracci, niente baci, e niente buongiorno come piace a me, a ogni componente della troupe, uno per uno, ma solo un gomito sfiorato, un cenno chiaro con la testa, un punto e mezzo in più di volume alzato perché sennò no, non si sente bene. E al “motore”, va dritta in tasca e teniamo un trucco leggero leggero, così non si toglie, e va bene così. E allo stop torna al suo posto. E tutti a un metro, e se possibile no, non vi stringete le mani, e in macchina ci può andare uno da solo, e allora sfalsiamo le convocazioni, gli arrivi, le partenze, e allora “Nocella dai, aspetta un po’ o arriva un po’ prima”. E ci si mette in tutto, molto più tempo. E si prepara di più. Ed è tutto diverso da prima, e bisogna che si stia attenti, che a chiudere di nuovo tutto ci vuol niente, e “l’addetto Covid” che ti incute più timore di tua mamma quando eri bimbo e ti sgridava ma lo faceva per te, lo faceva per il tuo bene. Ed era vero. Siamo tornati a lavoro, a fare il nostro lavoro inutile senza del quale non avreste resistito, durante il tutti a casa. E siamo tornati a farlo per portarvi fuori, dalle vostre case, senza assembramenti, ordinati e igienizzati. Siamo tornati, e se me lo avessero detto tre mesi fa non ci avrei creduto. Non so cosa succederà, non sono preparato. È successo tutto così, mentre preparavo il mio primo fi lm scritto apposta per me, da protagonista, cucito sulla mia tanta carne. È successo un giorno, che non l’avremmo mai detto, che non l’abbiamo capito, che non era mica possibile. La gente pensa che la storia abbia il respiro lungo, ma la storia, in realtà, ti si para davanti all’improvviso, diceva in un libro che la Storia l’ha fatta, Philip Roth. È arrivata all’improvviso. E col respiro lungo, noi, siamo ripartiti. Ehi, buona la prima. Non ne facciamo un’altra, dai.
Brano ascoltato in loop mentre scrivevo: Stars – Simply Red
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