Basato alla lontana sul libro dell’ex agente dei servizi segreti Gerald Petievich, Vivere e morire a Los Angeles è l’undicesimo film della carriera di William Friedkin e si pone nel centro della sua filmografia. Il film esce nel 1985 e, in quegli anni, Friedkin è un autore che vive nella terra di nessuno: un nome troppo grosso per essere dimenticato, ma non abbastanza di successo da essere una garanzia. I suoi successi (Il braccio violento della legge e L’esorcista) sono usciti nel decennio precedente mentre le sue opere più recenti non hanno trovato un riscontro positivo.
A complicare il tutto, il carattere di Friedkin, ben poco accomodante, o gentile, o disposto al compromesso o anche minimamente educato. Il suo agente, Tony Fantozzi (non è una battuta, si chiamava davvero così), lo racconta in giro come un regista finito ed è così che Friedkin si sente in quel periodo. Quindi, tutto quello che può fare è cercare di ricordare al pubblico e alla critica il perché era amato, tornando a “suonare un suo classico”, se così si può dire. L’idea, quindi, è semplice: facciamo un altro film come Il braccio violento della legge, lo basiamo sul memoriale di qualche tutore della legge, per dargli corpo e credibilità, e ne traiamo un semplice, concreto, thriller metropolitano a base di poliziotti violenti e compromessi che devono vedersela contro una criminalità organizzata molto peggiore di loro. In questo senso, il libro di Petievich è perfetto perché fornisce sì una solida base da cui partire, ma già ampiamente romanzata dall’autore stesso. Insomma, il film pare già scritto, basta solo girarlo. Facile. Facile a meno che non siate William Friedkin, uno a cui è sempre piaciuto complicarsi la vita. Perché va bene provare a rilanciarsi tornando al passato, almeno superficialmente, ma si deve guardare sempre al presente, proprio e del mondo. Se Il braccio violento della legge era un film pienamente degli anni Settanta, livido e deprimente, con un protagonista ruvido e fuori da ogni canone di bellezza, perché incarnava il clima e il sentire dei suoi anni, Vivere e morire a Los Angeles doveva essere ugualmente un film specchio del suo tempo. New York non era più il centro del mondo, al suo posto c’era L.A..
Il poliziotto incarnazione del maschio tossico, virile e violento non era più moneta corrente? Al suo posto un’altra personalità tossica e violenta, un drogato di adrenalina, un reaganiano rampante, bello, alla moda e “unisex” (per usare il termine scelto da Friedkin per descrivere il personaggio interpretato da William Petersen, oggi diremmo “metrosexual” o “fluido”), da contrapporsi a un cattivo ugualmente ambiguo e suadente (un magnetico Willem Dafoe, capace di portare il rapporto protagonista e antagonista ben oltre il semplice bromance). Quanto al linguaggio del film, la parola chiave è “moderno” ed “europeo”. Friedkin si innamora della fotografia di Paris, Texas di Wim Wenders, realizzata da quel genio che era Robby Müller, e lo coopta per il film, chiedendogli di dargli qualcosa di simile, ma mescolato con il gusto dei videoclip musicali che, nel frattempo, stavano cambiando i gusti del pubblico per le immagini. Al montaggio M. Scott Smith (Cruising). E visto che siamo in tema, alle musiche, i Wang Chung, band new wave squisitamente pop, tutta sinth, sassofoni e melodie, molto di moda e molto “avanti” per il periodo. Le riprese del film procedono abbastanza spedite (per essere un film di Friedkin) fino a quando non ci si incaglia sulla scena dell’inseguimento in auto, che deve essere superiore a quella del Braccio violento della legge.
Ci vogliono sei settimane per girarla e un altro direttore della fotografia, perché Müller non se la sente. Per come la vede lui, volendo rimanere fedeli a come Friedkin ha girato la scena, solo un pazzo o uno sconsiderato potrebbero pensare di realizzarla. Friedkin opta per lo sconsiderato e affida tutto al giovanissimo Bob Yeoman, che non avendo piena consapevolezza di quello che lo aspetta, gira probabilmente la migliore scena d’auto di tutti i tempi. C’è poi la storia dei soldi falsi che porta i Servizi Segreti (quelli veri) sul set e che fa bloccare le riprese per un paio di giorni a causa di un responsabile degli effetti speciali che pensa bene di rubarsi qualche biglietto da venti e di suo figlio che glieli sottrae a sua volta e li spende, facendosi poi beccare. Una volta che il film è finito, diventa chiaro che Friedkin ha preso in giro tutti: sì, il film si apre con un colpo di pistola, così come Il braccio violento della legge si chiudeva con un colpo di pistola, ma i due film non potrebbero essere più diversi e, a guardarli oggi, non sembrano separati da soli quattordici anni, ma da quattrocento.
La grammatica cinematografica di Vivere e morire a Los Angeles non è solo attuale per i suoi anni, ma è letteralmente proiettata nel futuro al punto che oggi è ancora più avanti di tanti film che, nel corso del tempo, gli hanno pagato tributo (da Michael Mann fino al Drive di Refn). Inquadrature inedite con angoli e punti di vista anomali, un montaggio costruito per assonanze, rimandi e suggestioni, una fotografia da rivista di moda che riesce a essere, allo stesso tempo, patinatissima e desolante, e una colonna sonora discordante con i toni del film, per creare uno spiazzamento completo nello spettatore.
E poi c’è il messaggio sottinteso, dove Friedkin ci dice che sì, gli anni Ottanta sono più belli a vedersi, ma, a scavare, sono ancora più marci e malati dei Settanta, e che i nuovi mostri sono peggiori di quello vecchi, perché più difficili da riconoscere. E poi, ovviamente, c’è il finale, che è un colpo in faccia allo spettatore e forse, ancora oggi, uno degli epiloghi più spiazzanti, crudelmente beffardi e neri della storia del cinema. In conclusione, forse ho sbagliato a inserire questo film nei classici, perché classico non lo è mai stato e non lo sarà mai.
Vivere e morire a Los Angeles appartiene, e sempre apparterrà, al futuro del cinema, comunque un passo avanti, fuori dalla portata di tutti.
3 MOTIVI PER NON DEFINIRLO UN CLASSICO
- La fotografia proveniente dal futuro.
- La regia e il montaggio da un altro pianeta.
- La colonna sonora appartenente a un’altra dimensione.
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