Quando, nel 2001, nelle sale di tutto il mondo arrivò Fast and Furious il pubblico si divise in due fazioni abbastanza nette. Da una parte, gli appassionati di motori e di preparazioni automobilistiche, assieme a qualsiasi ragazzino che fremeva per prendere la patente e sgasare per la città (erano altri tempi: la sensibilità della Gen Z e Greta Thunberg erano appena nati), che gridarono all’unisono: “fighissimo!”. Dall’altra c’erano quelli che avevano visto Point Break, film di dieci anni prima, diretto da Kathryn Bigelow, con Keanu Reeves e Patrick Swayze. Costoro fecero spallucce e dissero soltanto: “è lo stesso film ma più stupido, scritto, diretto e interpretato peggio, e con le auto al posto delle tavole da surf”. Strano a dirsi, entrambi i gruppi avevano ragione. Perché sì, Fast and Furious coglieva davvero la sensibilità e le mode del suo tempo e, soprattutto, era in perfetta sintonia con il pubblico che si prefiggeva di raggiungere (e non scordiamoci che aveva nel cast una futura star mondiale); ma sì, era anche puerile, scritto goffamente e in maniera bolsa e, soprattutto, era verissimo che non si trattava d’altro che di una rivisitazione, molto adolescenziale, del film scritto da Rick King e W. Peter Iliff un decennio prima.
E parliamone di questo Point Break, che alla Bigelow arriva quasi per caso. La storia, in breve: la sceneggiatura di Point Break inizia a girare sui tavoli di Hollywood agli inizi degli anni Ottanta e, nel 1986, sembra essere sul punto di essere girata da Ridley Scott (con Matthew Broderick, Johnny Depp, Val Kilmer e Charlie Sheen nel cast). Non se ne fa niente e lo script resta in un cassetto per quattro anni, fino a quando non viene comprato da Peter Abrams e Robert L. Levy, due produttori alle primissime armi che però hanno la faccia tosta di andare a proporlo a James Cameron, che in quel periodo è affaccendato con Terminator 2. Cameron declina l’invito, ma trova che quella storia abbia del potenziale.
Quindi segnala una giovane regista che per lui è eccezionale (al punto che l’ha sposata pochi anni prima): Kathryn Bigelow. A quel punto della sua carriera, la Bigelow è in un momento delicato: il suo primo film (The Loveless, mai distribuito in Italia) l’ha segnalata al mondo, il secondo (Il buio si avvicina, realizzato con un’ampia collaborazione di James Cameron e la sua crew) è diventato un instant classic del genere horror e una pellicola di culto. Il terzo (Blue Steel, con Jamie Lee Curtis) che doveva rappresentare il suo salto nel cinema di serie A, non è andato bene. Ora tutti l’aspettano al varco, e l’odioso sospetto che sia un’autrice brava solo in funzione dello straordinario regista a cui è legata, serpeggia per gli Studios. Fatto sta che Cameron assiste la moglie nella realizzazione di Point Break solamente in fase di riscrittura, aiutandola (a detta di entrambi gli interessati) a far emergere i personaggi e l’idea di cinema che la regista vorrebbe portare a schermo. Poi se ne va a lavorare sul suo cyborg del futuro interpretato dal futuro governatore della California.
Ma qual è questa “idea di cinema” che Kathryn Bigelow vuole imprimere a Point Break? È presto detto: Sam Peckinpah, ma per gli anni Novanta. Questo non significa che la regista intenda scimmiottare lo stile del più grande ribelle di Hollywood, quanto intercettarne lo spirito dolente, l’afflato mortale, la violenza disturbante, la cupa poetica, la forza primitiva e l’indole anarchica. E gli riesce perfettamente, perché Point Break è un film viscerale, intriso di virile bromance, millenaristico, epico, intimo, spettacolare, mistico, violentissimo, straordinariamente epico ma anche malinconico, dolce e durissimo. È nella scrittura (e nell’interpretazione) del personaggio di Bodhi, il santone del surf che passa l’estate a rapinare banche, e nel rapporto che Bodhi ha con il rigido e represso agente dell’FBI Johnny Utah, che Point Break trova la sua piena grandezza. Ed è esattamente su questo versante che le action figures che, invece, popolano Fast and Furious vanno a schiantarsi malamente. Ma non è tutto qui. Perché Point Break non è solo un film di grandi e veri contenuti. È pure una pellicola che setta un nuovo standard per le scene d’azione, che Kathryn Bigelow dirige con una forza, un’inventiva, una spettacolarità e un impeto senza eguali. E anche qui Fast and Furious segna il passo, potendo contare solo sulla spenta e anemica direzione di un Rob Cohen, incapace di andare più in là di qualche movimento di camera coadiuvato da effetti speciali digitali. E questa è probabilmente la ragione per cui, nel vedere oggi Point Break, si avrà l’impressione di stare guardando una pellicola che non è invecchiata di un giorno e che mantiene inalterata tutta la sua forza selvaggia ed eversiva; mentre nel guardare o riguardare Fast and Furious ci sembrerà di trovarci davanti a un lentissimo videogioco per la prima Playstation. Con Point Break, Kathryn Bigelow non solo si affranca da James Cameron e allontana ogni pettegolezzo su di lei, ma si consegna anche alla storia, mettendosi accanto a gente come Peckinpah, Milius e Hill. Non è roba da poco.
3 MOTIVI PER DEFINIRE POINT BREAK UN CLASSICO
- Per la forza della regia, la bellezza delle immagini e la spettacolarità delle riprese.
- Per la grande storia che omaggia i migliori western.
- Per l’iconica interpretazione di Patrick Swayze.
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