Nell’appartamento con Jack Lemmon e Shirley Maclaine

Nell’appartamento con Jack Lemmon e Shirley Maclaine

Sto consegnando questo articolo in forte ritardo questo mese. Vorrei dire che la colpa è degli altri miei lavori, o del cambiamento climatico, o delle cavallette, ma la verità è che ho dei problemi a scrivere di cinema classico in questo momento perché mi viene l’angoscia.

Cerco di spiegarmi: questo mese ho deciso di parlare de L’appartamento, film del 1960 di Billy Wilder, scritto da Wilder stesso e da I.A.L. Diamond, fotografato da Joseph LaShelle e interpretato da Jack Lemmon e Shirley MacLaine. Perché mi è salita l’angoscia? Perché so che di questo film dovrò parlare introducendolo, raccontandolo e spiegandolo, come se non fosse una delle migliori pellicole di tutti i tempi, diretta da uno dei registi più grandi di sempre e portata a schermo da due attori colossali. E questo perché so per certo che fetta abbastanza larga della mia platea non ne avrà mai sentito parlare.

Sia chiaro, io non me la prendo con la platea, me la prendo con il sistema culturale e commerciale che ha fatto sì che la platea non sappia di questo film e ignori i nomi di chi lo ha realizzato. Me la prendo con il fatto che sono bastate poche decine di anni per far sì che le ragioni commerciali abbiano del tutto oscurato i nomi di alcuni dei massimi esponenti del cinema, relegandoli a circoletti di appassionati o a luoghi dove il cinema lo si studia per dovere e non dove lo si ama per il piacere di amarlo.

Non me ne capacito: Billy Wilder, Jack Lemmon, Shirley MacLaine, tre nomi che dovrebbero figurare in ogni classifica dei migliori registi e migliori attori di tutti i tempi, e invece, tocca introdurli. Sapete che c’è? Non lo farò. Voglio credere in un mondo migliore di quello che è, un luogo dove non ci sia bisogno di una persona qualsiasi come me per presentare tre giganti simili. Parliamo del film e basta, e solo in funzione di quello che è, cioè il gioiello della corona di tre carriere straordinarie. Il film segue la storia di C.C. Baxter, interpretato da Jack Lemmon, un impiegato di una grande compagnia assicurativa che presta il suo modesto appartamento ai dirigenti dell’azienda (che lo usano per portarci le loro “amichette”, come si chiamavano all’epoca) in cambio di favori lavorativi e avanzamenti di carriera.

La trama si complica quando Baxter si innamora di Fran Kubelik, interpretata da Shirley MacLaine, ascensorista nell’edificio in cui Baxter lavora, amante di uno dei suoi capi e frequentatrice del suo appartamento (quando lui non c’è, ovviamente). Nel costruire la vicenda, Wilder gioca con quello che il pubblico si aspetta da lui e dai suoi attori, inducendolo a pensare di stare vedendo una classica commedia romantica, brillante, divertente, condita da giusto qualche sapido elemento di satira sociale.

Via via che il film si sviluppa, però, anche allo spettatore più disattento diventa chiaro di stare assistendo a un’opera drammatica che affronta temi come l’ipocrisia del mondo moderno e del sistema capitalistico, il cinismo e i soprusi del patriarcato (sì, nel 1960 la parola non era di moda ma c’era già chi ci rifletteva sopra), la solitudine e l’alienazione della vita metropolitana, la depressione e, alla fine, il suicidio. È un film più prossimo a Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan che A qualcuno piace caldo (dello stesso Wilder) e rappresenta pienamente quei grey movie (film “grigi”, dove la morale della storia e dei personaggi non era netta) che nei primi anni Sessanta cercarono di svecchiare Hollywood, infondendole una sensibilità nuova. In termini stilistici, il regista non si discosta da quell’approccio invisibile che lo ha reso uno dei più stimati autori di sempre (e che oggi tende a farci dimenticare la sua grandezza) e, con un tocco lieve, utilizzando appena un paio di ambienti (l’ufficio dove lavora il protagonista e il suo misero appartamento da scapolo), costruisce un mondo intero dove a tratti si sorride ma, perlopiù, si riflette sulle miserie della nostra esistenza. Lemmon e MacLaine, dal canto loro, lavorando in punta di fioretto, contribuiscono, con il loro immenso talento e sensibilità, a creare due personaggi apparentemente leggeri e divertenti, in realtà tremendamente compromessi, danneggiati, fragili e soli. Due disperati che non si riescono a riconoscere l’uno nell’altro e che solo alla fine, davanti al naufragio delle loro ambizioni, davanti a un mazzo di carte e a una bottiglia di bourbon, trovano una qualche forma di speranza. Forse, perché il film non ci concede la gioia di un vero happy ending, ma solo la sua, incerta, promessa.

A rendere ancora più straordinario il tutto, la splendida fotografia in bianco e nero del già citato Joseph LaShelle e la splendida, seppur discreta (come tutto nel cinema di Wilder), colonna sonora di Adolph Deutsch. In conclusione, L’appartamento, per quanto brillante, è un film molto disilluso, che ci racconta come dietro al lato più spassoso e faceto del regista, albergasse uno spietato osservatore della natura umana.

Il film, in Italia, lo trovate a noleggio su alcune piattaforme digitali e in una vecchia edizione Dvd. Se, però, non avete problemi con l’inglese, vi raccomando quella d’importazione in Blu-ray UHD 4K pubblicata un anno fa dall’americana Kino Lorber. Il consiglio, se non lo avete visto, è di recuperarlo il prima possibile, di amarlo e poi di parlarne a tutti.

MOTIVI PER DEFINIRLO UN CLASSICO

  • L’invisibile, ma inconfondibile, stile registico di Billy Wilder.
  • Lo splendido script.
  • Le migliori interpretazioni in assoluto di Jack Lemmon e Shirley MacLaine.

 

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