Negli ultimi anni si è molto parlato di Jason Blum, il fondatore della Blumhouse e del suo “metodo”, un sistema produttivo che ha permesso alla sua società di rivoluzionare il mondo del cinema a basso costo. In poco più di vent’anni Blumhouse ha creato nuove IP (Paranormal Activity, La notte del giudizio, Insidious, Sinister, Unfriended, Auguri per la tua morte, Oujia, e molte altre), trovato nuovi talenti (Jordan Peele su tutti), sostenuto difficili film autoriali di alto livello (vale la pena citare quantomeno il Whiplash di Damien Chazelle), rilanciato vecchi franchise (la saga di Halloween) e recuperato artisti che parevano perduti (M. Night Shyamalan il caso più evidente). Il “metodo” in questione consiste in un budget ridotto e inviolabile (si parlava di un tetto di spesa massimo di 5 milioni, indipendentemente da chi fosse il regista o quale fosse la natura del progetto), in un certo grado di libertà creativa concessa agli autori e nella produzione di un gran numero di film di genere ogni anno.
Con questo sistema si ottengono due risultati: il primo è quello di sfruttare il meccanismo della cosiddetta “coda lunga” che, in estrema sintesi, ci dice che nel tempo, cento film costati poco, anche se incassano poco, fanno più soldi di un solo film che incassa molto, ma che è costato anche tanto. Il secondo meccanismo si basa sul fatto che, producendo tanto, si moltiplicano le possibilità di azzeccare quel film piccolino che però diventa un fenomeno mondiale e ti trasforma in una persona molto, molto ricca. Sembra un meccanismo geniale, non è vero? Infatti a Hollywood, oggi, non sono poche le case di produzione che lo stanno copiando. C’è solo un piccolo dettaglio da segnalare: anche Jason Blum lo ha copiato. Da chi? Da Roger Corman e dalla sua factory. Oggi novantasettenne, Corman è stato un regista, sceneggiatore, distributore ma, soprattutto, produttore bulimico, capace di realizzare tantissimi film all’anno, in tempi brevissimi, con costi ridicoli, incassando spesso moltissimo.
Nel corso della sua carriera ha lanciato attori come Jack Nicholson, Charles Bronson, Peter Fonda, Talia Shire, Dennis Hopper e registi del calibro di James Cameron, Jonathan Demme, John Landis, Joe Dante e molti, molti altri. Tra i suoi film di maggior successo vale la pena ricordare tutto il ciclo di pellicole tratte dalle opere di Edgar Allan Poe (di cui è stato anche il regista) e film diventati poi di culto come La piccola bottega degli orrori (la versione originale, girata in tre giorni come una specie di scommessa) e Anno 2000 – La corsa della morte (Death Race 2000 in originale). Diretto nel 1975 da Paul Bartel (che poi finirà dietro la macchina da presa di due altri grandi successi: Cannonball e Scene di lotta di classe a Beverly Hills), Anno 2000 – La corsa della morte è interpretato da David Carradine (al tempo alla ricerca di un ruolo che lo smarcasse dalla serie Kung Fu) e Sylvester Stallone (che l’anno successivo sarebbe diventato una star con Rocky).
L’idea del film nasce da una delle tipiche intuizioni di Corman: la United Artists ha iniziato a promuovere un costoso film di fantascienza distopica, incentrato su un violentissimo sport del futuro: Rollerball. Notando l’aggressiva campagna promozionale e l’interesse che sta suscitando nel pubblico quella tematica, Corman produce in tutta fretta un per niente costoso film di fantascienza distopica, incentrato su un violentissimo sport del futuro e lo lancia prima della pellicola della United, bruciandoli sul tempo. Ora, per quanto Rollerball vada poi piuttosto bene, nella proporzione tra costi e ricavi, è Anno 2000 – La corsa della morte a vincere quella battaglia. E, a dirla tutta, non solo quella. Perché, se Rollerball è indubbiamente un buon film, capace di entrare nell’immaginario collettivo della gente, è anche un film molto serio, con un ritmo non così straordinario e che usa la violenza per dire cose molto impegnate. Anno 2000, invece, è una feroce parodia della società americana, esagerato nella storia e nei personaggi, scatenato nelle riprese, follemente violento e senza alcun intento demagogico.
Il film racconta di una società allo sbando che usa una folle corsa di automobili per mantenere il controllo sulla popolazione (secondo il principio del panem et circenses). Alla competizione partecipano piloti bizzarri che guidano auto ancora più bizzarre (in una sorta di versione da incubo della Wacky Race) e si fanno punti arrivando primi alle varie tappe, ma anche uccidendo i rivali o investendo i pedoni (non a caso il film ispirerà il controverso videogioco Carmageddon). Nelle intenzioni del regista, il film deve essere una commedia nera. Nelle intenzioni di Corman, un film iperviolento sullo stile di Arancia meccanica. Dal conflitto tra queste due visioni (e dai rimaneggiamenti operati dallo stesso Corman, una volta allontanato il povero Bartel) nasce una pellicola strana e difficile da inquadrare, incredibilmente divertente ma anche profondamente disturbante, che respinge e attrae al tempo stesso, come un brutto incidente autostradale che vorremmo non vedere ma che dobbiamo vedere per forza. A distanza di anni, la visione del film, al netto della povertà del suo budget e di un certo stile registico inevitabilmente datato, resta affascinante e spassosa. E mentre Rollerball è andato via via scolorendo nella sua critica sociale (sostanzialmente superata dai tempi), Anno 2000 – La corsa della morte ci appare più d’attualità oggi di quando è uscito nelle sale (sostanzialmente per colpa di Trump). È un piccolo film, esagerato e imperfetto, che però ha resistito benissimo al tempo e continua a parlare al presente.
3 MOTIVI PER DEFINIRLO UN CLASSICO
- La sua satira sociale non è invecchiata di un giorno.
- David Carradine nelle vesti del misterioso pilota Frankenstein.
- La ragazza del pubblico che si getta sotto le ruote del protagonista (morendo malissimo) per dimostragli il suo amore.
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