Dire che nei primi anni Settanta le cose fossero molto diverse da oggi sembra una vuota banalità, ma lo erano davvero, molto più di quanto si possa pensare. Per esempio, negli anni Settanta, non esistevano fan base tossiche di custodi della fiamma sacra, pronte a dare battaglia per il rispetto dell’opera originale, dove con “opera originale” intendo qualsiasi tipo di prodotto della creatività umana che fosse alla base di qualche adattamento in un altro linguaggio. Così, quando la Tokyo Movie decise di dare il via alla produzione di una serie animata tratta dal manga di Monkey Punch, Lupin III, a nessuno sembrò inappropriato che il tono del fumetto venisse profondamente stravolto, per adeguarsi ai gusti di un pubblico più ampio, specie perché un primo tentativo animato, molto fedele, era già stato tentato con un fi lm pilota che, però, non aveva convinto nessuno.
A dare vita al progetto, inizialmente c’era Yasuo Ōtsuka, che però se ne allontanò per inconciliabili divergenze artistiche e la responsabilità di portare a casa il risultato ricadde sui suoi allievi soci della A Production: il già maturo Isao Takahata e il giovane, ma talentuosissimo, Hayao Miyazaki. La prima serie delle avventure del ladro gentiluomo di terza generazione venne quindi realizzata e andò in onda, presentendo un personaggio simile, ma intimamente diverso, da quello creato in origine da Monkey Punch: più solare, meno comico, più realistico, meno demenziale, più romantico, meno violento. Con la giacca azzurra invece che rossa.
A fronte di un buon successo di pubblico e di critica, nel maggio del 1979 venne messo in cantiere un nuovo lungometraggio animato di Lupin e questa volta venne affidato a Miyazaki sin dall’inizio. Questi volle con sé il suo maestro, Ōtsuka, che nel frattempo gli era già stato affiancato nella realizzazione di un’altra serie televisiva, Conan il ragazzo del futuro. Per Miyazaki, quella sarebbe stata la prima regia cinematografica e l’occasione per la A Production (uno studio particolarmente indipendente e innovativo, molto autoriale nel contesto dell’animazione giapponese) di portare ai massimi livelli quell’approccio artistico senza compromessi in termini di qualità artistica, animazione e contenuti, che stava tentando di perseguire ormai da anni e che poi sarebbe diventato il marchio di fabbrica dello Studio Ghibli (fondato proprio da Hayao Miyazaki e Isao Takahata, assieme a Toshio Suzuki e Yasuyoshi Tokuma).
Il risultato è un film che, sostanzialmente, definisce e cristallizza quello che oggi riconosciamo come “lo stile di Miyazaki”, ma che è figlio tanto suo quanto di Ōtsuka, il quale non solo cesella quel character design oggi riconosciuto come proprio di tutti i film di Miyazaki, ma concepisce e dirige tutte quelle scene d’azione sfrenatamente ritmate (già presenti in Conan) che rendono il fi lm un gioiello anche sotto il punto di vista del dinamismo, a cominciare dalla straordinaria sequenza della rapina iniziale. Detto ciò, che il lungometraggio sia in tutto e per tutto un film di Miyazaki è evidente nella scrittura lirica, malinconica e romantica, molto distante dai toni più scanzonati della serie televisiva, nella caratterizzazione dei personaggi, nelle fi gure femminili sostanzialmente asessuate (persino Fujiko), nell’incredibile qualità degli sfondi pittorici e nella maniacale attenzione alla qualità di ogni dettaglio, anche i più trascurabili. A impreziosire il tutto, la straordinaria colonna sonora di Yūji Ōno che unisce il jazz alla classica, alternando composizioni più melodiche e tradizionali a momenti moderni, frenetici ed esaltanti.
Il film esce nelle sale nel 1979 e va piuttosto male, performando molto al di sotto di quanto la Toei, che lo aveva prodotto, si aspettava, ma è negli anni che ottiene la sua rivincita, diventando un classico e un’opera che non solo ha influenzato gli artisti di tutto il mondo, ma che ha definito e segnato la rotta per quello Studio Ghibli che sarebbe arrivato da lì a pochi anni. In sostanza, non sarebbe troppo ardito definire Il castello di Cagliostro tanto una pietra fondante dell’animazione giapponese, un fi lm che ha aperto una via fatta di un’ossessione per la qualità senza compromessi quasi controproducente (in termini economici), quanto uno dei fi lm animati più importanti e significativi a livello mondiale di tutti i tempi, tenuto conto dell’influenza che avranno poi le opere e le produzioni di Miyazaki a livello mondiale. Il suo unico difetto è che ha posto l’asticella così in alto da essere quasi irraggiungibile, certe volte anche per Miyazaki stesso.
Difficilmente uso la parola “imprescindibile” nel parlare di un film. Nel caso di questa pellicola, invece, mi sento di spenderla a cuor leggero: la sua visione è imprescindibile, sia che amiate i fi lm di animazione, sia che l’animazione non vi interessi. Il castello di Cagliostro è un grande fi lm a prescindere, di quelli che una volta che vi sono entrati dentro, passando per gli occhi e le orecchie, poi trovano un posto nel cuore. E da lì non se ne vanno mai più.
3 MOTIVI PER DEFINIRLO UN CLASSICO
- L’approccio maniacale alla qualità e alla cura di Hayao Miyazaki.
- Le esaltanti scene d’azione di Yasuo Ōtsuka.
- La colonna sonora di Yūji Ōno.
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