La distanza temporale e lo sguardo storico aiutano il critico a ricostruire gli andamenti artistici e produttivi della cinematografia di un paese, individuandone le correnti che, in un determinato periodo, l’hanno percorsa e gli effetti a cui hanno condotto. Ma questo tipo di operazione impone un processo di sintesi che, inevitabilmente, finisce per trascurare le eccezioni e prediligere le grandi tendenze.
Facciamo un esempio: non è sbagliato dire che, alla soglia degli anni Sessanta, il cinema americano si trovava in un periodo di profonda crisi artistica e di pubblico, derivato dal fatto che le produzioni hollywoodiane non si erano riuscite a rinnovare e distinguere da quelle televisive, finendo per proporre in sala delle opere non molto diverse da quelle che lo spettatore medio poteva vedere sul divano di casa sua; e che fu solamente grazie all’avvento di una nuova generazione di giovani ed eversivi cineasti, fortemente influenzati dal cinema europeo, che riuscì a salvarsi. Ma non è neanche pienamente accurato. Perché è verissimo che il cinema americano dei tardi anni Cinquanta produceva, per la maggiore parte, film moralmente imbelli e trascurabili ma, appunto, “per la maggior parte”: le eccezioni c’erano. Tra queste, la più notevole, è probabilmente quella di Lo spaccone (The Hustler), film del 1961, diretto da Robert Rossen, scritto da Rossen stesso e da Sidney Carroll, tratto dal romanzo di Walter Tevis (se il nome vi dice qualcosa è perché, probabilmente, avete visto su Netflix La regina degli scacchi, sempre tratta da un suo libro) e interpretata da un quadrilatero di attori in stato di grazia: Paul Newman, Piper Laurie, George C. Scott e Jackie Gleason.
Lo spaccone, assieme a Un tram che si chiama Desiderio di dieci anni prima, rappresenta l’apice di quei grey movie (film “grigi”, dove la morale della storia e dei personaggi non era netta) che stavano cercando una strada per portare il cinema a stelle e strisce fuori dal pantano artistico in cui era finito, pur muovendosi sempre all’interno della tradizione drammatica americana. Storie dure, personaggi fortemente compromessi, situazioni ambigue, sesso, squallore, povertà, dipendenze, disperazione e un happy ending per nulla garantito, erano le chiavi di queste opere, caratterizzate anche da una messa in scena lontana dalle luci soffuse e i set ricercati di tanta Hollywood del tempo.
Un’aspirazione, stilistica e tematica, al realismo che anticipava lo stile della New Hollywood di quasi un decennio, ma che riusciva a non rompere del tutto con il passato, trovando un perfetto punto d’equilibrio tra quello che era stato e quanto avrebbe dovuto essere. Lo spaccone è un film che riesce a unire l’approccio drammaturgico, ricercato e psicologico di Tennessee Williams, alla durezza neorealistica di Dashiell Hammett, il divismo di Paul Newman all’antidivismo di George C. Scott, l’elegantissima fotografia di Eugen Schüfftan allo stile registico moderno, nervoso ed essenziale di Robert Rossen e che, nella combinazione di questi elementi, riesce a diventare un classico istantaneo (adorato da pubblico e critica) e pure un film di enorme rottura con il passato. E non è per nulla un caso che, venticinque anni dopo, sarà proprio uno dei massimi esponenti della New Hollywood a girarne il sequel: stiamo parlando di Martin Scorsese e Il colore dei soldi (The Color of Money, 1986).
La pellicola arriva a metà degli anni Ottanta, in un momento strano nella carriera del regista, in cui sembra un poco in crisi di identità, e Il colore dei soldi, un sequel con un vecchio leone (Paul Newman) e un giovane volto di moda che nessuno ancora prende seriamente come attore (Tom Cruise), appare inizialmente come una svolta commerciale per Scorsese. E lo è. Ma è pure un riannodare un discorso cinematografico tra quello che c’era prima dell’arrivo della New Hollywood e la New Hollywood stessa.
La cinematografia di Scorsese degli anni Settanta aveva un debito non riconosciuto con Lo spaccone: grazie a Il colore dei soldi il regista riconosce quel debito e sottolinea in maniera evidente il filo che unisce Mean Streets, Taxi Driver e Toro scatenato al capolavoro di Rossen, chiudendo un cerchio spezzato da troppo tempo.
Va detto però che, pur essendo Scorsese un maestro assoluto, il colpo non gli riesce benissimo, tanto è vero che Lo spaccone è ancora un classico senza tempo, mentre Il colore dei soldi, pur essendo un buon film, è una delle pellicole meno memorabili di Martin Scorsese. A conti fatti, forse sarebbe stato meglio se Fast Eddie Felson non fosse mai più entrato in una sala da biliardo.
3 motivi per definirlo un classico
- Una delle migliori interpretazioni di George C. Scott.
- La migliore interpretazione di Paul Newman.
- La modernissima regia di Robert Rossen.
© Shutterstock (1), Rossen Films (2) Touchstone Pictures, Silver Screen Partners II (1)
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