Quando si parla di film slasher, non è semplice stabilirne le origini perché non è semplicissimo definirne i confini. Alcuni fanno risalire questo sottogenere dell’horror a classici come Psycho (Alfred Hitchcock, 1960) e L’occhio che uccide (Michael Powell, 1960), altri spostano la palla più avanti, attribuendo una progenitura diretta ai film “gialli” italiani (da Dario Argento a Bava, con tutto quello che ci passa nel mezzo), o al cinema exploitation.
Se lo chiedete a me, indicherei come primi, veri, slasher, pellicole come Un Natale rosso sangue (Bob Clark, 1974) Non aprite quella porta (Tobe Hooper, 1974), Le colline hanno gli occhi (Wes Craven, 1977) e, ovviamente, come quarto classificato (ma solo in termini cronologici), Halloween – La notte delle streghe di John Carpenter, del 1978. Tra tutti, il film di Carpenter è quello più stilizzato, quello più incisivo, quello più essenziale e, cosa sempre interessante da notare, l’unico a non mostrare neanche una goccia di sangue. E forse è proprio per queste ragioni che è la pellicola che ha poi definito e cristallizzato il genere, trovando la migliore accoglienza di pubblico e di critica e diventando iconica. Il film nasce dall’intuizione del produttore indipendente Irwin Yablans, alla ricerca di un giovane regista a cui affidare il compito di trasformare una mezza idea che gli è balenata in testa in un vero film, spendendo poco e badando al sodo. La visione di Distretto 13: Le brigate della morte (1976) fa capire a Yablans che quel John Carpenter potrebbe fare per lui: sa girare, sa girare con poco, ha un certo gusto per la tensione e la violenza, ma non è uno di quei nuovi registi hippie con mille velleità nella testa e alla ricerca di sperimentalismi e autorialità, non gli interessano gli approcci estremi e non guarda al cinema europeo moderno. Anzi, questo Carpenter sembra un vero appassionato di un cinema classico, tra Howard Hawks, Don Siegel e Alfred Hitchcock. Inoltre, è anche molto conveniente visto che per appena diecimila dollari (pochi anche per l’epoca) ha accettato non solo di scrivere e dirigere il film, ma anche di musicarlo.
Come bonus da non sottovalutare, si porta dietro la sua fidanzata, tale Debra Hill, che scrive bene e che sembra essere molto portata per gli aspetti produttivi. Yablans, insomma, è convinto di aver trovato il jolly in un mazzo di due di picche. E non ha torto. Perché anche se giovanissimi e con poca esperienza, Carpenter e Hill hanno ben in mente il tipo di cinema che vogliono fare e, soprattutto, sanno come farlo. Una volta accettato di realizzare un film basato su una nota scritta su un tovagliolino da cocktail (“Non è mai stato fatto un film a tema Halloween. Farne uno!”), John e Debra si mettono alla macchina da scrivere e concepiscono una storia in funzione dei mezzi (pochi) che avranno a disposizione. Danno quindi origine a uno script minimale, scabro, apparentemente povero. Ma che povero non è perché pensato già in funzione di come le scene verranno girate, in modo di ottimizzare la resa e non sprecare neanche un centimetro di tempo o di pellicola. Ci mettono tre settimane a fare la prima stesura (non ce ne sarà una seconda), rubando qualcosa dal già citato Un Natale rosso sangue e ibridando il tutto con una spruzzata di miti celtici e le esperienze di babysitteraggio di Debra.
Per il cast tecnico ci si rivolge agli amici, a qualche disperato che ha risposto all’annuncio su un quotidiano e a chiunque sia disposto a lavorare gratis, o quasi. Per quanto riguarda gli attori, l’unico volto “noto” è quello di Donald Pleasence, un tempo stimato attore inglese, poi grande caratterista hollywoodiano e, alla soglia degli anni ottanta, emerito signor nessuno con una simpatia spiccata per la bottiglia. Per l’attrice protagonista si sceglie una quasi sconosciuta, dove il “quasi” deriva esclusivamente dal suo cognome, perché è la figlia di Tony Curtis, ma di esperienza davanti la macchina da presa, la giovanissima Jamie Lee, non ne ha nessuna. Ancora più sorprendente è la creazione di Myers, il mostro del film, il male incarnato in un uomo, la figura destinata a diventare l’uomo nero per antonomasia del cinema horror, l’ombra… il suo outfit viene creato a pochi giorni dall’inizio delle riprese, con una maschera di William Shatner dipinta di bianco e una tuta da meccanico, il tutto indossato da Nick Castle, un amico di Carpenter (e futuro regista di discreto successo) che ha il merito di essere piuttosto alto e ben piazzato.
A quel punto, dopo una preproduzione durata un amen, il film può partire, con trecentomila dollari di budget totali e una troupe di amici che si aiuta l’un l’altro, indipendentemente dal reparto d’appartenenza. Venti giorni di girato sul set, tre giorni in studio per la colonna sonora, due settimane di montaggio e il film è pronto. Esce il 24 ottobre in una sala AMC a Kansas City, dove viene ben accolto dal pubblico. Poi arriva la distribuzione nazionale e un successo inimmaginabile. Il resto è storia nota. Ma perché Halloween è un film così riuscito e così capace di intercettare il pubblico? Cosa lo rende così unico e speciale rispetto alle pellicole venute prima di lui (e anche ai numerosi epigoni successivi)? Una ragione, sicuramente, è il talento di John Carpenter e di Debra Hill, naturalmente. Ma, ancora di più del talento puro e semplice, è la loro intelligenza e la loro idea di cinema a fare il successo del film. Perché nello scrivere la storia dell’Ombra e della coraggiosa babysitter che gli si oppone, i due autori hanno avuto il buon senso e la lucidità di focalizzarsi solo, ed esclusivamente, sul centro della loro storia, il cuore narrativo ed emotivo di tutta la vicenda, tralasciando intenzionalmente tutto il resto.
Halloween è un film scritto per diventare immagini in movimento e musica e di vivere e trovare il suo senso, solamente in funzione di questi elementi. Non c’è nulla che si potrebbe aggiungere al film di Carpenter e Hill per migliorarlo e nulla che si potrebbe togliere senza distruggerlo. Ha tutto quello che serve e nulla che non sia indispensabile. Non c’è un dettaglio in più o uno in meno di quanto sia strettamente necessario e, in questo senso, è uno dei pochissimi film assolutamente perfetti che sono stati prodotti. Non è una sorpresa che sia diventato un’icona perché, come un’icona, è stato costruito.
3 MOTIVI PER DEFINIRLO UN CLASSICO
- La figura di Michael Myers.
- Il tema musicale composto da Carpenter.
- La straordinaria scena d’apertura in soggettiva.
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