Cannes 2019 è ormai agli sgoccioli, ma sulla Croisette, proprio a ridosso della chiusura del festival, ci ha pensato Abdellatif Kechiche con il suo Mektoub, My Love: Intermezzo a riaccendere gli animi e a provocare un nuovo scandalo. La proiezione di gala, avvenuta ieri sera al Grand Théâtre Lumière, si è infatti contraddistinta per un’accoglienza piuttosto controversa, tra abbandoni della sala e proteste per via della consueta sovraesposizione dei corpi femminili.
Un clima acceso che è proseguito anche stamattina, tanto che il vociare si è fatto col passare delle ore sempre più incalzante e il feedback, da parte sia della critica che del pubblico, ha presentato al regista franco-tunisino il proprio conto. L’Intermezzo della saga, inaugurata dal regista due anni fa al Festival di Venezia con il Canto Uno, segue i protagonisti all’interno di una discoteca per oltre due ore sulle tre e mezza di durata, alle quali Kechiche è approdato dopo aver ulteriormente tagliato il film di mezz’ora in vista del passaggio a Cannes.
Dopo un prologo consumato in spiaggia (siamo Sète, in Occitania, nel settembre del 1994), con i consueti dialoghi fluidi e naturalistici tipici dello stile del regista, tra sguardi complici e tensioni lasciate in sospeso, fragole mangiate sul bagnasciuga e salsedine, Mektoub, My Love: Intermezzo immerge i propri interpreti in un night club dai non usciremo praticamente più per il resto del film, tra danze scatenate, balli dalla fortissima carica erotica e irrefrenabile desiderio sessuale.
Fatta eccezione per il finale, che si chiude con un alba che guarda esplicitamente al proseguo della storia e della saga, la sequenza più dibattuta è quella che occupa il centro del film: una torrida scena di sesso orale, apparentemente non simulata e lunga ben dodici minuti, nella quale una delle protagoniste, Ophélie (Ophélie Bau), incinta di Tony (Salim Kechiouche) ma prossima al matrimonio con un altro uomo e ferma sulla volontà di abortire, riceve un generoso e passionale cunnilingus da un altro ragazzo che l’ha sempre desiderata, fin da quando erano adolescenti.
È sicuramente il momento più esplicito di tutto il cinema del regista (anche più de La vita di Adele), che pesca a piene mani nella pornografia e filma un’estasi dei corpi in cui il godimento si consuma tutto all’interno del bagno del locale, tra respiri ansimanti e dettagli molto generosi, baci infuocati e contatti fisici che non conoscono remore. In tanti si sono indignati e hanno alzato il sopracciglio contro una presunta, eccessiva mercificazione del corpo della protagonista, scagliandosi contro un’attrice impegnata a donarsi totalmente allo sguardo troppo vorace dell’autore e soprattutto contro quest’ultimo, già investito dalle polemiche nei mesi scorsi sull’onda del #MeToo.
Si tratta, tuttavia, da un punto di vista puramente cinematografico, di un momento pienamente inscrivibile nella poetica del regista, cantore del piacere femminile in forme prorompenti e liberatorie, oltre che lontane da ogni pruriginoso moralismo. Una scena indubbiamente selvaggia e sfrontata, ma è anche vero che Kechiche, attraverso inquadrature e scelte di regia, dà pieno risalto all’orgasmo della sua giovane interprete, impegnata a tenere in mani le redini della situazione senza mai risultare subalterna rispetto al proprio partner maschile nel corso dell’amplesso furtivo. C’è anzi, nel modo in cui l’atto sessuale è filmato, una voracità che sa di disperazione, perfino di malinconia. La stessa, a conti fatti, degli occhi di Amin, giovane fotografo trasferitosi a Parigi per inseguire la sua professione d’artista, nel quale Kechiche si rispecchia completamente.
La potenza grafica di una scena di tale durata, probabilmente la più lunga nel suo genere mai vista al cinema, può senz’altro scioccare, anche se forse bisognerebbe fare lo sforzo di guardare oltre la polemica e il prurito a buon mercato per osservare il tatto con cui Kechiche riesce a filmare una scena così spinta senza scadere nella pura e semplice volgarità. La sua idea di carnalità, ancora una volta, si conferma priva di freni inibitori ma paradossalmente e incredibilmente elegante, tanto per la vitalità che riesce ad emanare quanto per il sincero trasporto che è in grado di trasmettere. Emblema perfetto del cinema di un autore da sempre interessato, con più empatia che morbosità, ai confini del godimento, alla loro rappresentazione e alla nostra condizione fatale di voyeur, di osservatori non visti, che al cinema ci imprigiona e insieme ci libera.
Proprio quello che fa coi suoi personaggi lo stesso Kechiche, che stamattina in conferenza stampa ha avuto modo di difendersi dalle accuse. «La cosa più importante per me, lo voglio sottolineare subito, era celebrare la vita, l’amore, il desiderio, il respiro, la musica, il corpo. Volevo provare un’esperienza cinematografica più libera possibile. Quello che ho cercato di fare è descrivere le cose attraverso il movimento. Potrei sembrare ovvio. Ma quei corpi sono piuttosto magici, attraenti, vibranti. Volevo filmare la magia del corpo. È l’aspetto metafisico del corpo che ho ritratto», ha dichiarato il cineasta, dicendosi allo stesso tempo perfettamente consapevole di quanto il suo non sia un film per tutti e che non tutti potranno mai condividere il modo in cui guarda gli esseri umani.
Foto: Getty Images
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