Italia, primi del 1600. Michelangelo Merisi (Riccardo Scamarcio) è un artista geniale e ribelle nei confronti delle regole dettate dal Concilio di Trento che tracciava le coordinate esatte nella rappresentazione dell’arte sacra. Dopo aver appreso che Caravaggio usava nei suoi dipinti sacri prostitute, ladri e vagabondi, Papa Paolo V decide di commissionare a un agente segreto del Vaticano una vera e propria indagine, per decidere se concedere la grazia che il pittore chiedeva dopo la sentenza di condanna a morte per aver ucciso in duello un suo rivale in amore.
Così l’Ombra (Louis Garrel), questo il nome dell’investigatore, avvia le sue attività di inchiesta e spionaggio per indagare sul pittore che – con la sua vita e con la sua arte – affascina, sconvolge, sovverte. Un’Ombra che avrà nelle sue mani potere assoluto, di vita o di morte, sul destino di un genio, protetto nel frattempo da molti nobili del tempo, in particolare la Marchesa Costanza Colonna (Isabelle Huppert).
Al suo quattordicesimo film da regista, Michele Placido riprende un’idea che risale addirittura al 1968 quando, arrivato a Roma, frequentava l’Accademia d’arte drammatica. E per raccontare la vita di Michelangelo Merisi da una prospettiva inedita, inventa un personaggio, quello dell’Ombra: è l’intuizione tutt’altro che trascurabile di un film sorprendente, livido e sensuale, che trova nell’adesione totale ai demoni incendiari e maledetti di Caravaggio un’ispirazione non da poco, restituendolo come un uomo mortalmente fascinoso ma anche sporco e trasandato, sfibrato dai segni del tuo mestiere, rissoso e sempre pronto a sguainare la spada e prendere parte a una rissa.
Il Caravaggio di Placido non è solo una rockstar ante litteram e un genio maledetto, ma anche un ribelle contro un potere, quello temporale più che spirituale della Chiesa del tempo, che vorrebbe imprigionare la sua creatività troppo smisurata, indicibile, oscena. L’ombra di Caravaggio rema nella stessa direzione del suo protagonista, dando vita a un crepitante e (ovviamente) chiaroscurale inferno di anime perse e turbolente, ebbre di piacere malsano e vitalismo disperato e senza ritorno, che si staglia con furore orgiastico intorno al personaggio incarnato da Riccardo Scamarcio. L’attore si cala nel ruolo senza risparmiarsi e venendo brutalmente martorizzato, in senso sia fisico sia religioso, fin dalla prima sequenza, nella quale il suo volto viene trafitto sanguinosamente da una lama ispirando così, sulla viva pelle dell’artista, il suo Golia. Intorno a lui c’è un cast letteralmente folle, che convince anche nelle slabbrature e spazia dall’istintualità del rapper Tedua nei panni di Cecco, modello prediletto di Caravaggio, all’erotismo malizioso, sornione, felino e quasi da Sfinge della Huppert, penalizzata purtroppo da un doppiaggio artificioso e azzoppante.
Se si può avere qualche perplessità sulla rigida natura epistolare del film, che porta con sé qualche stonata forzatura analoga, va anche detto che questo taglio è parte del fascino dell’operazione, che a partire dall’italiano pulito e meccanico di Garrel, calatosi nei panni una delle tante spie filo-francesi che affollavano Roma, costruisce una detection story di fatto priva di indizi, dove tutto è puntualmente già svelato in partenza e la posta in gioco messa sempre sul tavolo, senza alcun occultamento reale.
In assenza di mistero sulle attività di Caravaggio, a dir poco famigerate a quel tempo, il film di Placido può permettersi di usare il confronto tra il pittore e la sua ombra come una lente morale sulle pulsioni insopprimibili dell’arte e le catene sempre troppo strette della moralità, e anche sull’impenetrabilità indecifrabile e violenta che separava queste due opposte visioni del mondo e dell’umano, specie nel momento in cui si ritrovavano a duellare fatalmente (a proposito di questa reciproca miopia, il Caravaggio di Scamarcio citando l’Uno contro tutti di Carmelo Bene sbraita addirittura: «Io non vi sfido! Io non vi vedo!»).
Va poi riconosciuto il lavoro encomiabile di location, ricostruzioni scenografiche e costumi, per non parlare della plumbea ma sempre vivida fotografia di Michele D’Attanasio, che ricorrono a sofisticate e articolate tecniche per riprodurre, dentro il tessuto visivo del film, celebri quadri caravaggeschi. Questo slancio non si riduce mai al piacere del calco fine a se stesso o della strizzata d’occhio per compiacere l’abilità dello spettatore nel riconoscere questo o quell’immortale dipinto, ma conferisce ai corpi sulla scena una tridimensionalità vigorosa, impudica, intimamente pasoliniana, fedelmente a quello stesso processo di trasmutamento dei volti con il quale Caravaggio raccoglieva per strada i suoi compagni di viaggio – ladri, prostitute, vagabondi – per farne soggetti e modelli dei suoi quadri, trasfigurati in santi e madonne e in icone immortali esposte ancora oggi nei musei di tutto il mondo.
Foto: Luisa Carcavale
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