Roma, 1829. Bartolomeo (Marco Giallini) è un uomo ricco e avido che brama il titolo nobiliare più di ogni cosa. Nel tentativo di recuperare il denaro necessario a stringere un accordo segreto con il principe Accoramboni (Sergio Rubini) per ottenere in moglie sua figlia, si troverà nel bel mezzo di un sorprendente viaggio a cavallo tra passato, presente e futuro. Guidato da compagni d’eccezione, dovrà fare i conti con sé stesso e conquistare nuove consapevolezze.
Il Principe di Roma, il film di Edoardo Falcone (Se Dio vuole, Questione di karma) che offre finalmente a Marco Giallini un ruolo da mattatore a tutto campo in romanesco storico, è ambientato nella Roma papalina dei primi decenni del XIX secolo e non può non guardare a Luigi Magni, dal cui In nome del Papa Re lo stesso Falcone ha ammesso di essere rimasto folgorato in tempi non sospetti, anche se il punto di partenza del soggetto scritto da Falcone con Marco Martani, e poi sviluppato in sceneggiatura con Paolo Costella, è un altro: il Canto di Natale di Charles Dickens.
Con un occhio ai sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli e altro alle stampe di Bartolomeo Pinelli e alle litografie di Thomas, Il Principe di Roma non è esente dagli inciampi grossolani di tanta commedia italiana contemporanea, eppure ha una forza e una grazia nel tratteggio epico e disgraziato dei personaggi in costume da stagliarsi come un’opera piacevolmente eccentrica nel panorama della nostra produzione comica più recente. C’è un grande dispendio di maschere, costumi e incarnazioni storiche, con Giordano Bruno (Filippo Timi), papa Borgia (Giuseppe Battiston) e Beatrice Cenci (Denise Tantucci) a fiancheggiare lo Scrooge trasteverino di Giallini, ma quel che più conta ne Il Principe di Roma è la capacità di ridere con (e non ridere soltanto su) la romanità e i suoi aspetti macabri ed esoterici, arraffoni e miserabili.
Scomodare paragoni illustri con opere come Il marchese del Grillo e la commedia all’italiana serve a poco (per quanto inevitabile fin dalla prima scena in cui Bartolomeo detto “Meo” si fa fare il ritratto tra molte ritrosie scorbutiche e grossolane), visto che una reale polarizzazione tra l’amarezza e il cinismo – e la capacità di farli convivere – è qualcosa che la nostra commedia ha perso da tempo, di pari passo con una sempre maggiore impalpabilità delle appartenenze sociali e politiche. Il Principe di Roma, nel suo piccolo, riesce però a raccontare la Città Eterna come babilonia di disincanto ridanciano, di aurea mediocritas nel cui imbuto si viene sempre ricacciati a fatica, di ricerca di un pugno di denaro e della proverbiale svolta come dissimulazione dell’ansia soffocante del vuoto e della morte. Giallini in questa dimensione ci sguazza alla grande e furoreggia perfino, gigioneggiando col suo vocione e il vernacolo romano più spaccone e sbruffone immaginabile ancora più che in Non ci resta che il crimine di Massimiliano Bruno.
E poi, ovviamente, ci sono soprattutto i fantasmi, non quelli di passato, presente e futuro come in Dickens ma quelli “storici” che abitano Roma e la infestano con dolcezza svampita, come fossero macchie impercettibili alla vista e al contempo sedimentate e difficilissime da scrostare da mura ed edifici millenari, in fin dei conti più vicini alla famiglia dei Casper e dei Ghostbusters che a un’aura dickensiana (anche se il finale chiama a chiare lettere la “favola natalizia” e un’uscita al cinema sotto l’albero sarebbe stata più che legittimata). Perché a Roma, in fondo, tutto è gravoso ma al contempo leggiadro, il già noto presta sempre il fianco all’inconoscibile e, come diceva Flaiano, la Capitale conserva in ogni tempo «un’estrema riserva di mistero, e ancora qualche oasi».
.Foto: Lucky Red, Rai Cinema, Sky
© RIPRODUZIONE RISERVATA