I segreti di Osage County non è un film per tutti. Non lo è nonostante il furbissimo titolo italiano, che evoca drammoni americani vecchio stile, di quelli che fanno piangere centinaia di migliaia di spettatori per poi finire relegati nel giro di un paio d’anni alla programmazione pomeridiana di Rete Quattro. Non lo è nonostante il tentativo di venderlo come veicolo per l’Oscar per Julia Roberts o magari, tanto per cambiare, per Meryl Streep: troppo facile ridurre il film a una parata di star in stato di grazia. Non lo è, un film per tutti, perché, pur se le sue radici affondano nel melò, bastano le prime scene della nuova pellicola di John Wells (alla seconda regia in carriera dopo The Company Men) per capire che Osage County è, prima di tutto, un’opera teatrale – per non dire letteraria, un’ennesima iterazione del Grande Romanzo Americano che guarda più a Steinbeck (o a Franzen, se vi sentite moderni) che a Via col vento. Importa poco che lo sfondo sia quello rurale di un caldissimo Oklahoma agostano e che i paesaggi – piatti, infiniti, desolanti e affascinanti insieme – siano ingrediente fondamentale del film tanto quanti gli attori; più che ricordare le sue sceneggiature precedenti, da Bug a Killer Joe, il testo di Tracy Letts è concettualmente vicino al Carnage di Polanski: cinema da camera (da villa in campagna, in questo caso), cinema di attori e di rapporti umani, in cui il dramma si consuma seduti intorno a un tavolo e fisicità e movimento sono ridotti a (quasi) zero.
I segreti di Osage County non è per tutti, dicevamo: la storia della famiglia Weston, padre madre e tre figlie oltre a una pletora di parenti più o meno stretti che gravitano intorno alla loro tenuta nell’Oklahoma, è fatta di bugie e non detti, di orribili verità che rimbalzano da madre a figlia, da figlia a cognato, e che non fanno altro che esplodere, in continuazione, senza soluzione di continuità né rispetto per il concetto di “limite” – per capirci: a metà film spunta fuori anche l’incesto, e non è il peggio. Qualcuno gradirà questo eccesso, la spirale autodistruttiva tendente all’isteria che avvolge, avvince e imprigiona ogni personaggio; qualcun altro troverà stucchevole la discesa nell’abisso della matriarca Violet (Meryl Streep, eccezionale o fuori controllo?) e la sua crudele pervicacia nel trascinare con sé il resto della famiglia, in una caduta collettiva tanto straziante da sembrare una caricatura. E importa poco, in fin dei conti, lo spunto narrativo che dà il via alle vicende: Beverly Weston (Sam Shepard), romanziere auto-isolatosi nella natìa e torrida contea di Osage, Oklahoma, insieme alla moglie Violet, esce di casa una mattina per non tornare più; forse è stanco della tossicodipendenza (da farmaci antidepressivi e dintorni) della consorte, forse non sopporta più il caldo soffocante o la distanza – fisica e spirituale – che lo separa dalle figlie Barbara, Ivy e Karen (Julia Roberts, Julianne Nicholson e Juliette Lewis).
Forse, forse, forse: dubbi, bugie, verità inconfessabili, ogni rapporto in Osage County è velenoso, tossico, potenzialmente letale per entrambe le parti.
Ivy è una lesbica repressa (stando alla madre), una ragazza che mortifica il suo fascino e per questo morirà zitella – destino inconcepibile in una terra intrappolata nel passato, e poco importa che la ragazza abbia un amante segreto, interpretato (e non diremo di più per non rischiare spoiler) da un Benedict Cumberbatch curiosamente fuori posto e con l’accento meno credibile dai tempi di Kevin Costner che fa l’inglese in Robin Hood.
Karen è, molto più facilmente, una svampita, e contestualmente il personaggio più insopportabile e meno caratterizzato del film, fidanzata con uno yuppie (Dermot Mulroney) che pare uscito da una parodia firmata dai fratelli Farrelly.
E poi c’è Barbara, fuggita dalla campagna per sposare un uomo di cultura e, in ultima analisi, imborghesirsi: un fallimento e una delusione per due genitori cresciuti negli stenti e che non concepiscono idee come «andare dallo psicologo» o «crisi depressive»; a cui va aggiunto il carico da novanta della irrinunciabile figlia adolescente ribelle (un’insostenibile Abigail Breslin).
Insomma: non c’è nulla che non si sia già visto altrove, ma è tutto presentato con tale virulenza, crudeltà e cinismo che arrivare ai titoli di coda è una tortura e insieme un obbligo imposto con prepotenza dal film stesso. Due ore di pellicola, eppure è quasi tutto contorno, riciclo e rimasticatura di un canovaccio classico. Le idee, quelle importanti e che rimangono in testa una volta grattata via la patina, sono poche, ma sono taglienti, letali: le donne, quando invecchiano, imbruttiscono; i figli sono destinati a essere una delusione per i genitori, qualunque strada intraprendano; il passato di ciascuno è un peso troppo grande perché il presente si possa affrontare con serenità e senza pregiudizi.
C’è chi ha parlato di “commedia nera” per definire Osage County. È innegabile che a tratti si rida, grazie soprattutto ad alcuni dialoghi particolarmente brillanti e sopra le righe, tanto che non avrebbero sfigurato in un vecchio film di Woody Allen – in particolare quando a bisticciare sono la Roberts e il marito, un dimesso ma efficace Ewan McGregor. Che le risate siano solo il sottoprodotto di interazioni infette tra adulti disfunzionali è altrettanto vero, ed è lo spartiacque tra chi adorerà queste due ore di cinema urlato e disperante e chi, all’ennesima sfuriata di una Meryl Streep mai così teatrale, implorerà pietà. O magari premerà il tasto “Mute” sul telecomando, per godersi in santa pace i campi lunghissimi con cui Wells ritrae l’America verace e rurale (o retriva) che circonda la famiglia Weston, o per studiare la composizione delle inquadrature in interni, o l’eleganza della fotografia, o qualsiasi altro espediente formale sia stato costruito per rendere più digeribile una storia che, per l’appunto, non è per tutti.
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