Cinematograficamente, il termine “polar” è un neologismo che indica una crasi tra il genere poliziesco (policier) e il noir. Si tratta, in sostanza, di storie di criminalità, raccontate attraverso la lente deformante dell’hard boiled americano, rivisto però secondo la sensibilità francese. Il genere affonda le sue radici negli anni’40, quando i francesi iniziarono a cercare di emulare le produzioni americane del periodo, e arriva fino ai giorni nostri, ma è tra gli anni Sessanta e tutti gli anni Settanta che trova piena consacrazione grazie allo svilupparsi di caratteristiche proprie, tanto nel linguaggio quanto nei temi, anche in virtù delle contaminazioni con la Nouvelle Vague.
Per molti versi, si può dire che gli anni d’oro del polar francese corrono paralleli (e seguono un percorso abbastanza simile) a quelli degli spaghetti western italiani, dove una cinematografia diversa da quella Usa si appropria degli stilemi di quel cinema, celebrandoli ma, allo stesso tempo, sovvertendoli. Tra i maestri del polar, è obbligatorio citare Jean-Pierre Melville e, con lui, il suo capolavoro: Le Samouraï (da noi arrivato con il ben meno suggestivo titolo di Frank Costello faccia d’angelo). E fin dal titolo, il film di Melville ci racconta la vicinanza, almeno spirituale, con gli speghetti western nostrani. Se, infatti, Leone pesca dalla filmografia chambara (i film di samurai) di Akira Kurosawa (e in particolare dal bellissimo Yojimbo) per realizzare il suo primo grande successo, alla stessa suggestione sembra rispondere il regista francese, che appena tre anni dopo la comparsa sullo schermo del poncho di Clint Eastwood, consegna al mondo un personaggio ugualmente iconico e laconico, una maschera imperturbabile e imperscrutabile, che agisce come un samurai (ma sarebbe meglio dire un ronin) in un contesto diverso da quello del Giappone feudale: Jef Costello, diventato Frank Costello, nell’edizione nostrana.
La trama del film è talmente asciutta e minimale che raccontarla sarebbe incorrere nel moderno reato di spoiler. Per restare sul generico, Le Samouraï racconta, con particolare essenzialità e asciuttezza, la storia di un sicario professionista e le complicazioni di un incarico andato storto. A interpretare il sicario c’è Alain Delon, non il più versatile ed espressivo degli attori, che qui, grazie al suo proverbiale sguardo di ghiaccio e alla sua imperturbabilità, incappa (forse non intenzionalmente) nella prova migliore della sua carriera, assurgendo a una statura iconica non solo rispetto alle altre opere di Melville (che ne farà il suo attore feticcio), ma anche in relazione al cinema francese tutto. Il film è parco di dialoghi e concede pochissimo allo spettatore in termini di spettacolarità. La grammatica cinematografica è austera al punto da sembrare quasi basilare, ma è la piena competenza e misura con cui Melville alterna totali a rari piani americani e mezzi busti, primi piani a sporadici dettagli, sobri carrelli a inquadrature fisse, a definire un film che non cerca di arruffianarsi lo spettatore in nessuna maniera ma che, nonostante questo, lo incatena allo schermo in un vortice di ineluttabile violenza e morte. Merito della straordinaria riuscita del film va anche dato al suo direttore della fotografia, Henri Decaë, occhio elegantissimo della Nouvelle Vague (un film su tutti: I quattrocento colpi di François Truffaut), il quale qui ha modo di collaborare con quel Jean-Pierre Melville che non fa parte della nuova generazione di registi francesi che in quegli anni sta cambiando il mondo del cinema ma che, da quella generazione, è ammirato e guardato con grande rispetto.
Alla sua uscita, Le Samouraï è un buon successo in patria ma non varca i confini nazionali che alcuni anni dopo, con un’edizione internazionale funestata da un doppiaggio a dir poco discutibile. Il film diventa un punto fermo per molti registi successivi e viene citato esplicitamente da Jim Jarmusch (con Ghost Dog) e da John Woo (con The Killer), ma è di grande ispirazione complessiva per registi come Walter Hill (il suo The Driver riecheggia di suggestioni melvilliane), Nicolas Winding Refn (che con Drive, prendendo le mosse proprio da The Driver di Hill, inevitabilmente incappa in Melville) e, soprattutto, da quello che è il massimo epigono stilistico del regista francese, lo straordinariamente prolifico Johnnie To. Rivisto oggi, Le Samouraï è un film che non è invecchiato di un giorno nello stile e nel linguaggio e in cui il perfetto equilibrio dei pochi elementi presenti ci ricorda come un cinema non didascalico e fatto di immagini e movimenti, più che di parole, è ancora possibile.
3 Motivi per definirlo un classico
– Perché con poche pennellate perfette, Melville costruisce un intero mondo narrativo
– Per la forza iconica e seminale del suo protagonista
– Per la meravigliosa fotografia
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