Hugh Jackman, bisogna ammetterlo, è probabilmente l’entertainer più fisico e prestante tra gli attori del cinema contemporaneo, il più scattante e completo, il più bravo a usare il corpo come una protesi coinvolgente. L’ha dimostrato perfino quando è stato chiamato a condurre la notte negli Oscar nel 2009, esibendosi in numeri canori e danzanti di ottimo livello.
Un film come The Greatest Showman non poteva dunque che essere pensato e costruito su misura per lui, per la sua contagiosa energia da performer. Deve essere stato senz’altro rassicurante, per l’esordiente australiano e suo connazionale Michael Gracey, regista pubblicitario, averlo sul set di un musical che pur avendo alle spalle molte repliche di successo a Broadway ci ha messo quasi dieci anni a venire alla luce, tra incertezze produttive e rallentamenti vari.
La storia del primo e più grande impresario circense, P.T. Barnum, colui che inventò il circo moderno, è anche la vicenda di un pezzo importantissimo dell’intrattenimento contemporaneo. Perché nell’opportunismo ruspante di Barnum, nei suoi modi spicci e nella disinvoltura affamata di meraviglie esotiche e mirabolanti con cui egli si rivolse a un pubblico ottocentesco di vastissime dimensioni riunito sotto un tendone, ci sono le radici profonde e lontane della commerciabilità dell’arte, del suo legame con un capitale, economico e umano, potenzialmente sterminato.
In quell’indeterminatezza ed eterogeneità, tuttavia, c’è anche un coefficiente di diversità non sempre rassicurante: Barnum lavora sui freak e sugli outcast come fossero merce da imbandire, vi costruisce intorno una girandola forsennata che nel film si articola attraverso numeri musicali di buon impatto (il brano This is me della donna barbuta interpretata da Keala Settle è forse quello più memorabile): un tripudio colorato di note e coreografie calate in un’oasi dentro la New York dell’800, anche grazie al lavoro compatto e organico di Benj Pasek e Justin Paul, le menti dietro ai brani più emblematici di La La Land, Audition e City of Stars.
Dietro ogni esibizione a tessere le fila di tutto ci sono però sempre Barnum e le sue prerogative: l’ambizione di successo, la brama di attenzioni, l’eccitazione per la risalita e il baratro di una possibile caduta. Tutte cose che il circo, nella sua brutale frontalità enunciativa e comunicativa, è in grado di riassumere in maniera viscerale e, per l’epoca, estremamente pionieristica. Quella di The Greatest Showman era dunque una storia che con il cinema aveva molto a che fare e che trova nel film di Gracey una forma magari non sempre compiuta ma indubbiamente generosa, dove si insegue l’ode del diverso in modi e tempi magari né originali né sottili, ma con un gusto per l’eccesso più accogliente e morbido di quello di Baz Luhrmann in Moulin Rouge!, forse il riferimento più diretto di questo film, anche per quel che riguarda la love story di Zac Efron e Zendaya.
Il motore di fondo, però, è sempre e comunque l’opportunismo calcolato dello stesso Barnum, la sua lingua sprezzante (“Un critico cinematografico che non si diverte al cinema. Chi è l’imbroglione?”): una scaltrezza che sarà anche cinismo da show business ante litteram ma che non per questo esclude il coinvolgimento epidermico degli occhi, delle orecchie e del cuore come tutt’uno al cospetto del quale lasciare andare i propri bisogni più profondi, in un incanto bigger e larger than life che sconosce i limiti della ragione e della mente per abbracciare – e superare – solo e soltanto gli steccati dello stupore.
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