Il figlio delle stelle: intervista a Keir Dullea in occasione del restauro di 2001 Odissea nello Spazio

Il capolavoro di Kubrick è stato presentato in questa nuova versione al Festival di Cannes, accompagnato da Christopher Nolan. Tornerà anche nelle nostre sale il 4 e 5 giugno. Noi abbiamo incontrato il protagonista

Il figlio delle stelle: intervista a Keir Dullea in occasione del restauro di 2001 Odissea nello Spazio

Il capolavoro di Kubrick è stato presentato in questa nuova versione al Festival di Cannes, accompagnato da Christopher Nolan. Tornerà anche nelle nostre sale il 4 e 5 giugno. Noi abbiamo incontrato il protagonista

Keir Dullea in 2001 Odissea nello spazio, ora restaurato analogicamente in 70mm

2001 Odissea nello Spazio compie 50 anni, il suo futuro è già stato ampiamente scavalcato, ma la visione di Kubrick è sempre in vantaggio sul cinema e sul mondo, come una sinfonia di Beethoven o un quadro di Lucio Fontana. «Quando il film uscì metà dei critici lo stroncò, venivano a chiederci quale era il senso di quel finale. All’anteprima di New York 250 spettatori uscirono dalla sala irritati. Però piaceva ai ragazzi, più erano giovani e più gli piaceva, e il film cresceva settimana dopo settimana».

Il tempo, che non avrà mai la meglio sull’opera, sta invece guadagnando terreno su Keir Dullea, che anno dopo anno continua a incarnare una versione parallela, e in un certo senso struggente, dell’invecchiamento di David Bowman in una stanza immacolata ai confini dello spazio. «Ma non sono ancora così vecchio, non posso fare un paragone». Dullea è a Cannes per presentare la copia restauratain modo completamente analogico e in 70mm – del capolavoro di cui è protagonista, uno dei pochi film che, un decennio dopo l’altro, non perdono un grammo del loro potere di suggestione, continuando a formulare il loro monito e la loro promessa. Il film uscirà in questa nuova versione anche nelle nostre sale, il 4 e 5 giugno.

Gli inconfondibili occhi blu illuminano il viso magro. I movimenti aggraziati con cui beve il suo caffè e risponde alle domande, su uno yacht ormeggiato di fianco al Palazzo del Festival, sono gli stessi con cui Bowman disattiva HAL prima di perdersi del cosmo.

Quand’è stata l’ultima volta che hai visto il film?
«Qualche mese fa».

E come ti senti a rivederlo?
«Ogni volta scopro qualcosa di nuovo. Ovviamente mi sento molto fortunato e orgoglioso ad averne fatto parte. Ma nessuno all’epoca immaginava come sarebbe diventato. Se potessi chiedere agli attori di Quarto Potere ti risponderebbero la stessa cosa: nessuno può immaginare che 50, o 75 anni dopo, nelle scuole di cinema verrà studiato il suo lavoro».

Non c’era nemmeno qualche indizio che poteva farlo pensare all’epoca?
«È molto difficile. Quando stai lavorando al film ti limiti a considerare i tuoi impegni giorno per giorno. E considera che la sequenza dell’”Alba dell’umanità” è stata girata molto, molto tempo dopo che io avevo finito le mie riprese. Mentre quelle sulla stazione spaziale del Dr.Floyd erano già concluse quando sono arrivato io. Ho camminato su quel set, ma non ne sono mai stato parte attiva. Poi invece ho visto il film e ne sono stato sopraffatto, ma non diversamente da quanto accade al pubblico».

Come fu la lavorazione?
«Il mio impegno sul set durò quattro o cinque mesi. Il rapporto con Kubrick era ottimo, non alzava mai la voce e ascoltava i suggerimenti di tutti, anche se magari poi non li seguiva. Nacque anche una bella amicizia con Gary Lockwood, che nel film interpreta Frank Poole. Un’amicizia che ha resistito negli anni grazie a tutte le sessioni di autografi che abbiamo fatto periodicamente al Comic Con. Siamo diversi ma complementari, lui è un tipo della West Coast, io della East Coast. Lui è sempre stato un’atleta, e prima di diventare attore faceva lo stunt-man, io invece sono più il tipo dell’intellettuale… Ma lui è laureato in inglese e ha sempre avuto un vocabolario molto migliore del mio».

Quale scena ti impegnò di più?
«Fisicamente, quella in cui HAL non mi fa rientrare, e quindi devo passare attraverso la camera di decompressione d’emergenza. Dovetti fare lo stunt perché il mio personaggio, in quel momento, non ha il casco, quindi non si poteva fare con la controfigura. Ora l’impressione, vedendo la scena, è di me che rimbalzo in una condizione di assenza di peso, ed effettivamente la scena fu girata così. Kubrick ottenne quell’effetto legandomi a una corda. Vicino a me c’era un uomo con dei grossi guanti, che aveva fatto dei grandi nodi calcolando esattamente l’altezza che ci serviva. Quando Stanley disse ‘Azione!’ mi gettai nel vuoto, di faccia, verso la camera… Quando la corda raggiunse il primo nodo, l’uomo con i guanti la afferrò, saltando a sua volta, e ritirandomi su. Poi appena i suoi piedi toccarono il suolo la lasciò andare di nuovo, e io scesi, fino al nodo successivo. E così via. Fortunatamente bastò una ripresa e la portammo a casa, perché fu obiettivamente pericoloso».

L’intervista completa uscirà su Best Movie di giugno.
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