In chiusura di Venezia 79 è stata presentata Fuori Concorso Copenhagen Cowboy, la nuova follia del regista danese Nicolas Winding Refn: una serie noir in sei episodi che racconta di una giovane ed enigmatica eroina, Miu, interpretata dall’attrice Angela Bundanovic. Dopo una vita di servitù, alle soglie di un nuovo inizio, si aggira nel tetro paesaggio del mondo criminale di Copenaghen, trovando rifugio presso la tenutaria di un bordello con annesso porcile. Alla ricerca di giustizia e vendetta, Miu incontra la sua nemesi, Rakel, e insieme intraprendono un’odissea nel naturale e nel soprannaturale. Alla fine, il passato trasforma e definisce il loro futuro e le due donne scoprono di non essere sole, ma di essere molti, in un inferno criminale danese popolato anche dalle mafie cinese, serbo-albanese e araba.
Dopo Too Old To Die Young, realizzata per Amazon, il cineasta di Drive e Solo Dio Perdona torna nel mondo della serialità, stavolta per Netflix, con un progetto originalissimo e spiazzante: una sorta di bomba a orologeria piazzata nel cuore della serialità contemporanea, orientata a scuotere il pubblico con qualcosa di inedito e mai visto prima, sgretolando ogni aspettativa e comfort zone. «Copenhagen Cowboy nasce dal mio fuoco rivoluzionario e cerca allo stesso tempo di sedurre e intrattenere i sensi. È progettato per stimolare la mente, gli occhi, la lingua, il cuore e l’anima», ha detto Refn a proposito della serie, realizzata in Danimarca e la cui lavorazione è partita con l’arrivo della pandemia, quando l’autore è stato costretto a rimanere nel suo paese natale e a mettere in stand-by dei progetti americani che aveva in cantiere.
L’attrice protagonista è un altro degli alter ego cari a Refn, che eredita virtualmente lo scettro dai vari Bronson (Tom Hardy) in Bronson, One Eye (Mads Mikkelsen) in Valhalla Rising, Driver (Ryan Gosling) in Drive, il Tenente (Vithaya Pansringarm) in Solo Dio Perdona, Jesse (Elle Fanning) in The Neon Demon e i numerosi personaggi dello spettacolo Too Old to Die Young. Il suo nome è ispirato alla casa di moda Miu Miu del gruppo Prada, con cui è in atto una collaborazione che ha portato Refn a vivere a Milano per dedicarsi a svariati progetti, mentre la connotazione fisica del personaggio è molto diversa dagli altri di Refn, con una fragilità femminile molto più marcata e un volto che la fa somigliare a una sorta di piccolo e smagrito uccellino in gabbia, ma solo in apparenza indifeso.
In conferenza stampa a Venezia Refn ha così descritto il suo modo di lavorare e la maniera in cui si è evoluto: «Le cose dipendono molto dall’umore della mattina: un horror può diventare della fantascienza dai toni domestici, specie quando mi relaziono coi miei bambini, e tradursi in suspense nel pomeriggio. Mi piace creare questo flusso spontaneo di reazioni che mi attraggono. II social media, che sono forse la versione futura del cinema, si basano sull’eterogeneità di elementi, il che è stimolante anche artisticamente. Mi piace distruggere i canoni».
E li ha distrutti eccome Refn in Copenhagen Cowboy, che è in perfetta continuità con tutti i lavori passati del regista, anche con i suoi primissimi film, ma sembra disintegrarli e polverizzarli a uno a uno in un flusso audiovisivo sempre più dilatato, come se la negazione del proprio passato fosse l’unica via per morire e rinascita come artista e come griffe (l’ormai celebre e riconoscibile firma in calce by NWR). Refn ormai pare aver definitivamente travalicano i confini del cinema e della serialità, per approdare a qualcosa di spaventosamente prossimo alla perversione dell’arte contemporanea, all’installazione da galleria, alla provocazione d’autore che setaccia il letame – senza alcun timore né auto-censura – in cerca di una forma oscena di trascendenza delle immagini.
La castrazione del maschio e la relativa impotenza, uno dei temi cardine del suo cinema, qui non è nemmeno più una metafora, un sottotesto, il correlativo oggettivo di un ordine simbolico rovesciato: viene sfacciatamente e svergognatamente esposta fin dai dialoghi, che sono mere suppellettili di un’operazione di genere abitatata da streghe e fantasmi, torbida ed eterogenea, che prende ogni sviluppo narrativo in contro-tempo, senza paura di risultare al contempo perversa e romantica nell’esposizione di una violenza casuale e senza peso.
Per i nostalgici e le vedove del primo Refn, è chiaro che Copenhagen Cowboy possa lasciare interdetti ed essere rifiutata, magari anche in tronco, col rischio di essere scambiata per un’estenuante e interminabile pubblicità di moda. Si tratta però di una rivendicazione fortissima di discontinuità rispetto a tutto quello che si può vedere e trovare in giro oggi, specie sul piccolo schermo, perché nessuno come Refn pare avere il coraggio di esporre la propria nudità d’artista al cospetto dei propri demoni e tormenti, visualizzandoli con un stile che è tutto panoramiche cadenzate ed estremamente calibrate di 360° (ma anche gli split screen con tableaux vivants in movimento e le dissolvenza incrociate di Copenhagen Cowboy sono maiuscoli) e se ne infischia bellamente di poter risultare spossante e irritante.
«Non capisco perché l’intrattenimento di massa debba essere così veloce– ha spiegato Refn in conferenza stampa – in un museo magari rimani un’ora davanti a un quadro, anche la musica e i libri si possono fruire a diverse velocità, lo stesso avviene quando comunichiamo coi nostri figli per l’apprendimento, mentre dall’intrattenimento si pretende sempre che sia frenetico. Il tempo invece è importante, quando ci ritroviamo a guardare qualcosa chiediamo che ci dia qualcosa in cambio, non semplicemente che ripeta quello che fanno già fanno tanti altri. Questa serie per me è come l’origin story di un supereroe, lo scoprire una razza aliena che vive sulla Terra».
Piaccia o no, Refn si è guadagnato sul campo lo status di provocatore definitivo e senza ritorno e la sua arte si fa sempre più largo nel rimosso delle immagini, nel vuoto pneumatico che sta dietro la superficie, nelle pulsioni allucinatorie più sadiche degli esseri umani, mostrate come una lentissima danza di corpi filmati come pesci boccheggianti in un acquario rigorosamente al neon. La sessualità è ovunque, perché a essere invocato è anzitutto un rapporto carnale e sensuale dello spettatore con le immagini, ma di sesso propriamente detto non c’è nessuna traccia: tutto in Copenhagen Cowboy silenziato, ovattato, spogliato di pathos e desiderio, dolcemente mortificato. «Trovo ci sia anche qualcosa di erotico nel termine cowboy, oltre a rimandare al western, e mi è piaciuto unire questi due termini che hanno una connotazione sessuale per arrivare meglio ai giovani», ha detto Refn al Lido.
Nel cast di Copenhagen Cowboy, oltre a Zlatko Buric, indimenticabile interprete della trilogia Pusher, anche sua moglie (Liv Corfixen) e sua figlia (Lola Corfixen), a riprova di come Refn ami anche muoversi all’interno di una dimensione artigianale da factory familiare: «Mi piace includere anche la mia famiglia perché per me è fonte di ispirazione. Liv è stata la mia prima ragazza e poi è diventata mia moglie, così ho rinsaldato questo nostro rapporto quotidiano. Quando giro un film divento piuttosto sadico nei confronti delle persone, ma perché in qualche modo vengo consumato dal mio lavoro. A casa sono dominato dalle donne, mia moglie e le mie figlie, che controllano la mia vita, così sono molto sottomesso a casa e piuttosto sadico nel lavoro».
Foto: Netflix
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