Pochi mesi dopo la presentazione del suo ultimo lungometraggio, Asteroid City (nelle sale italiane dal prossimo 28 Settembre), al Festival di Cannes, il regista americano Wes Anderson è approdato al Lido di Venezia per presentare The Wonderful Story of Henry Sugar, primo dei quattro mediometraggi da lui diretti per Netflix e ispirati ai racconti dello scrittore inglese Roald Dahl (autore, tra gli altri, di La Fabbrica di Cioccolato e Il GGG, entrambi già trasposti al cinema). Non è la prima volta che il regista nato a Houston adatta un lavoro di Dahl, visto che nel 2009 aveva diretto Fantastic Mr. Fox, film in animazione stop motion.
Al centro della storia, che Anderson ha detto essere la sua preferita tra quelle di Dahl, c’è un uomo molto ricco, l’Henry Sugar del titolo (interpretato da Benedict Cumberbatch), che viene a conoscenza dell’esistenza di un guru (Ben Kingsley) in grado di vedere senza usare gli occhi e decide di imparare a padroneggiare questa tecnica per barare al gioco d’azzardo. Dopo anni di studio e di pratica, inizierà a sviluppare questo potere per arricchirsi ulteriormente e donare il ricavato in beneficenza.
Anderson mette in scena la vicenda favolistica con il suo consueto stile, a questo giro particolarmente rigido, specie nella frontalità con cui i vari personaggi leggono il testo parlando direttamente in camera. A incorniciare il tutto, nel vero senso del termine, ci sono delle scenografie teatrali molto mobili che vengono di volta in volta spostate e modificate a seconda delle esigenze narrative, mantenendo il classico impianto dell’estetica di Anderson e delle sue inquadrature simmetriche e perfettamente rifinite.
La sensazione, anche alla luce dell’ultimo lungometraggio di Anderson di appena qualche mese fa, il già citato Asteroid City, è che il cineasta abbia ormai imboccato una spirale senza ritorno per quel che riguarda l’ostinazione con cui persegue la propria visione del mondo e – di conseguenza – dello storytelling, che, nel suo universo narrativo, non coincide più con dei semplici racconti ma con delle vere e proprie matrioske e scatole cinesi, in cui ogni linea narrativa ne contiene un’altra che a sua volta ne abbraccia un’altra ancora, in un processo incessante e quasi algebrico di segmentazione e moltiplicazione.
The Wonderful Story of Henry Sugar scorre, nei suoi soli 40 minuti di durata, con godibile piacevolezza affabulatoria e la solita, straniante delicatezza pastello tipica del cinema di Anderson, che però continua a non creare più dei personaggi ma ad utilizzarli come delle mere funzioni matematiche. La proliferazione dei piani visivi, arricchiti da pareti scomponibili, contribuisce dal canto suo a rendere ancor più articolata e dinamica l’esperienza di visione. In attesa di scoprire se e come il regista tornerà a sganciarsi da tali architetture narratologiche per abbracciare un cinema meno teorico e più umano e caloroso di quanto lo sia oggi, per i fan duri e puri dello stile andersoniano questo suo ultimo lavoro è senz’altro un tassello quantomeno non trascurabile, disseminato di buoni sentimenti e nel quale emerge sempre più – e in maniera sempre più irreversibile – il dolce e iper-rifinito autismo di un immaginario unico e coerente.
Foto:Indian Paintbrush Productions, American Empirical Pictures
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