Carmen (Elena Gigliotti) ama troppo intensamente, troppo a modo suo e il mondo non glielo perdona. Lei e Massimo (Alessandro Averone) si sono lasciati, ma Carmen continua a considerarlo l’uomo della sua vita. Adora Giada, la figlia che hanno avuto insieme e che adesso ha 5 anni. La bambina è stata affidata al padre, alla madre il permesso di vederla una volta ogni quindici giorni. Carmen non ci sta: sa di aver commesso degli errori, ma anche di essere una buona madre e non permetterà che accada di nuovo quello che è successo a lei da bambina. Se il mondo la vuole distruggere, lei trasformerà il mondo.
Dramma indipendente diretto da Vittorio Moroni, al suo terzo film dietro la macchina da presa, L’invenzione della neve, presentato alle Giornate degli Autori 2023 di Venezia 80 – nella cornice delle Notti Veneziane – segue una struttura narrativa dai tratti fotorealisti, in cui l’idea di pedinamento degli esseri umani neutrale e asettica, cara ai fratelli Dardenne, incontra l’impetuosa violenza di una storia scolpita nell’abbandono, nel disagio e della disperazione (il film è stato girato in soli 18 giorni, attraverso molteplici piani sequenza).
Della parabola di Carmen, all’insegna della sofferenza radicale, non ci vengono risparmiate le lacrime più struggenti come il più vergognoso senso del laido che sembra abitare questa storia dall’inizio alla fine, in una Palermo che non si vede mai e che pure è emanazione urbana impalpabile e spettrale, “raccontata” oltretutto dallo sguardo di un cineasta valtellinese. L’attrice catanzarese Elena Gigliotti, davvero bravissima e la cui recitazione cresce di respiro di pari passo al film, sintonizzandosi sul suo battito, si dona generosamente al suo ritratto femminile, impudico e sfacciato: il vero cuore di un film acerbo e generoso che, soprattutto all’inizio, ragiona un po’ troppo per macro-sequenze e scene madri, quando invece una maggior misura nella scrittura e al montaggio avrebbe sicuramente giovato, specie a fronte delle oltre due ore complessive di durata.
È tuttavia interessante, luminoso e liberatorio notare come L’invenzione della neve si apra progressivamente, tanto a se stesso e alla sua natura più intima, quando alla percezione più sfrontata dello spettatore, sempre più chiamato in gioco come pedina attiva di una parabola esistenziale a metà strada tra la partita a scacchi con la sorte e la mannaia di un destino che, nel momento in cui si dipana davanti ai nostri occhi come un filo aggrovigliato, sembra sempre più tragicamente scritto fin dall’inizio, analogamente a quello dei tanti animali sui quali la regia insiste con fare non lontano dalla dolce autopsia, un po’ ornitologica e un po’ entomologica.
Quella di Carmen è la storia di una bambola/sirena che voleva essere bambina, di una bambina che voleva essere bambola, al contempo madre e figlia, moglie e madre, tanto che la sua vera prole, quella piccola Giada sempre pensata, vagheggiata e amata, non ci viene mai mostrata per non “rubarle” la scena e rimane eloquentemente fuori campo senza mai apparire, proprio come la dimensione urbana palermitana. Eppure queste dicotomie appaiono per lei, che somiglia a una versione siciliana della cantante Amy Winehouse, particolarmente gravose e insormontabili, tanto che gli inserti animati di Gianluigi Toccafondo con i quali il film incorniciava la sua narrazione si configurano, a posteriori, come un porto sicuro per attutire il peso del proprio immaginario e consegnarlo alla natura transitoria, liquida, acquatica e – ovviamente – tutta materna del Mito. Nella fattispecie, la favola raccontata dai disegni de L’invenzione della neve è quella di una famiglia di sirene che fugge dal fiume e impara a vivere nella giungla. scoprendo ben presto, però, che la terra non è meno minacciosa dell’acqua…
Foto: 50N; I Wonder Pictures
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