Leggi QUI la prima parte delle Recensioni in breve da Cannes 2021
Tre piani di Nanni Moretti
È il film di Moretti in cui il Moretti attore è più marginale, insieme al Caimano, che però lavorava in modo diretto sul tema politico, cioè nel suo prato di casa. È anche un film in cui Moretti rinuncia del tutto all’ironia e sembra chiedere ai suoi attori – fin dalla scena di apertura – un distacco anti-naturalista dai loro personaggi. Così il bel romanzo di Eshkol Nevo – che viene adattato e trasposto a Roma, incrociando le tre storie principali e portandole avanti in parallelo – acquisisce sfumature lugubri e i personaggi paiono quasi abbandonati a se stessi, a tratti inerti, perfino fantasmatici. Una dimensione che diventa esplicita nell’ultimo segmento, quando il personaggio di Margherita Buy parla con il marito attraverso la segreteria telefonica. Un film formalmente gelido, qua e là impacciato (in particolare nel segmento di Scamarcio e Lietti) ma comunque ricco. (**)
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Drive My Car di Ryûsuke Hamaguchi
Da un racconto di Haruki Murakami, Ryusuke Hamaguchi, appena premiato a Berlino con un Orso d’Argento per Wheel of Fortune and Fantasy, trae un film bellissimo. Storia di un famoso regista teatrale che perde la moglie dopo aver scoperto che lo tradiva e mentre gli viene comunicato che non potrà più guidare a causa di un glaucoma. Due anni dopo, a Hiroshima, si trova ad allestire una nuova versione di Zio Vanja e assegna il ruolo principale all’amante della moglie, mentre una giovane autista guida la sua auto e lo porta in giro per la città. Il cinema di Hamaguchi ha radici forti nella linea di discendenza che unisce Ozu a Kore’eda, ma anche una passione per le trame impalpabili del destino che ricorda Hong Sang-soo. È un luogo in cui riposare lo sguardo e aprire il cuore. (****)
Petrov’s Flu di Kirill Serebrennikov
Tratto da un romanzo di Alexey Salnikov, il nuovo film di Kirill Serebrennikov, il regista russo condannato dal suo governo per la natura politica del suo lavoro (l’ultima volta che era stato selezionato a Cannes era agli arresti domiciliari, stavolta la pena è stata sospesa ma non può lasciare il paese) è un un atto creativo energico e contorto. Il protagonista, effetto da una misteriosa influenza (ma libro e film risalgono produttivamente al pre-pandemia), è un meccanico e un autore di fumetti con una fantasia caotica che lo porta a confondere realtà e immaginazione, tanto più sotto l’effetto di una febbre che lo affligge e non se ne va. Nel film si mischiano eventi di ogni genere, navi aliene, resurrezioni, possessioni, omicidi, fucilazioni sommarie e chi più ne ha più ne metta. Quasi tutto senza spiegazione. Soprattutto si confondono presente e passato di Petrov, cucendo assieme un Natale di molti anni prima e quello che lo aspetta ora, e dando l’impressione che nel frattempo la Russia non abbia fatto che peggiorare, trasformandosi definitivamente in una terra priva di morale e raziocinio. Un film vitale quanto difficile da seguire e digerire. (**1/2)
Bergman Island di Mia Hansen-Løve
Una coppia di registi, marito e moglie (Tim Roth e Vicky Krieps, la musa di Daniel Day-Lewis in Il filo nascosto), viene invitata sull’isola di Faro per una retrospettiva curata dal Bergman Centre. Alloggiano nella casa dove Bergman ha girato alcune sequenze di Scene da un matrimonio e visitano i luoghi del suo cinema sull’isola. Entrambi lavorano anche al nuovo film, ma mentre lui sembra attraversare un periodo di grande creatività, lei è bloccata. Alla fine qualcosa emerge, come suscitato da fantasmi bergmaniani, e il film si trasforma nella messa in scena della storia che sta scrivendo. E poi in altro ancora. Bergman Island è un gioco cinefilo felice, pieno di una grazia solare, una fantasia estiva che ha il solo difetto di sembrare a tratti – nella sua vaghezza amorosa – un menù turistico (provate a non avere voglia di andare a Faro dopo averlo visto). (***)
The French Dispatch di Wes Anderson
L’omaggio di Wes Anderson al The New Yorker – cui lo lega evidentemente sia la sensibilità estetica che la passione letteraria – si rivela in realtà soprattutto un giochino iconoclasta che sceglie i suoi bersagli nella cultura europea novecentesca e francese in particolare: l’arte postmoderna, i movimenti studenteschi sessantottini e la nouvelle cuisine. Tre argomenti per tre cortometraggi presentati come rappresentazioni audiovisive di servizi del The French Dispatch. Il primo funziona assai meglio degli altri due ma in generale il fatto di passare così poco tempo nella strepitosa (lo capirete nei primi minuti) redazione del magazine diretto da Arthur Howitzer, Jr. / Bill Murray sembra per tutto il film un’occasione perduta. Non aspettatevi insomma Le avventure acquatiche di Steve Zissou, ma un divertissement a episodi che ripete, spesso stancamente, le fissazioni intellettuali e formali del suo autore. (**)
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Titane di Julia Ducourneau
Dopo il coming of age cannibalico di Raw, Julia Ducourneau rilancia ancora e con Titane si mette sulle tracce di Cronenberg, Claire Denis e soprattutto Shin’ya Tsukamoto. Titane significa titanio, come il materiale di cui è fatta la grossa placca che viene impiantata sul cranio della giovane Alexia per salvarle la vita dopo un incidente automobilistico. Vent’anni dopo, ormai donna, Alexia si esibisce come sexy danzatrice in un gigantesco garage pieno di macchine d’epoca. In una notte particolarmente agitata decide di fare sesso con la leva del cambio di una delle auto su cui solitamente balla… e resta incinta. Altro non diciamo per non rovinare la sorpresa, ma ci sono di mezzo anche diversi omicidi e una caserma dei pompieri governata da un uomo depresso (Vincent Lindon) convinto di riconoscere in Alexia il figlio scappato di casa molti anni prima. Che Ducourneau abbia idee e ambizione non si discute: qui si diverte a manipolare carne e metallo, prendendo a modello Crash e Tetsuo, ma allargando il discorso a una molto contemporanea visione fluida dei generi sessuali. Il tutto in una confezione ultra-pop e coloratissima. È un film riuscito? No, è un pasticcio. Ma un pasticcio pieno di ottimi ingredienti. (**1/2)
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A Hero di Ashgar Fahradi
Il ritorno di Ashgar Fahradi in Iran dopo la parentesi spagnola di Tutti lo sanno, segna anche il ritorno alla sua incredibile capacità di sviluppare una storia e la sua morale attraverso il dialogo tra i personaggi, dentro trame semplici e al contempo fitte di svolte e ragioni contrapposte. Come in un racconto kafkiano, la decisione di un uomo di dare ascolto a uno scrupolo morale (in particolare restituire delle monete d’oro trovate per caso) gli si ritorce lentamente contro, trasformandolo agli occhi della società in un truffatore. L’”eroe” del titolo affronta così una spirale di umiliazioni assieme al figlio e alla donna di cui è innamorato, senza mai rinnegare la sua idea di mondo. A tratti, vedendo padre e figlio che girano per la città in cerca di un modo per riscattarsi, viene in mente Ladri di biciclette, ma al realismo Fahradi affianca una tecnica da drammaturgo che probabilmente oggi non ha rivali (sarebbe affascinante si misurasse anche col teatro). Grande film. (****)
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