Tre piani, tre famiglie e la trama del quotidiano che logora la vita, disfa i legami, apre le ferite, consuma il dramma. Al piano terra di un immobile romano vivono Lucio (Riccardo Scamarcio) e Sara (Elena Lietti), carriere avviate, spinning estremo e una figlia che parcheggiano dai vicini, Giovanna (Anna Bonaiuto) e Renato (Paolo Graziosi).
Al secondo c’è Monica (Alba Rohrwacher), che ha sposato Giorgio (Adriano Giannini), sempre altrove, ha partorito Beatrice senza padre e “ha” un corvo nero sul tavolo. All’ultimo dimorano da trent’anni Dora (Margherita Buy) e Vittorio (Nanni Moretti), giudici inflessibili che hanno cresciuto Andrea (Alessandro Sperduti) al banco degli imputati. Un incidente nella notte travolge un passante e schianta il muro dello stabile, rovesciando i destini e mischiando i piani.
Giunto al suo tredicesimo lungometraggio di finzione, Nanni Moretti firma per la prima volta un film che non nasce da un suo soggetto: alla base di Tre piani c’è infatti il romanzo omonimo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo (già in Aprile Nanni diceva di amare un letterato suo connazionale, Abraham Yehoshua, affermando che il suo ultimo libro era bello “come tutti i libri di Yehoshua”, anche se lui all’epoca riusciva a leggere solo racconti brevi, tra paturnie paterne dovute alla nascita del figlio Pietro e la confusa lavorazione di un documentario sull’Italia).
Moretti in Tre piani ha spostato l’azione da Tel Aviv all’Italia, nella fattispecie nella sua Roma, ma la natura intima del testo è rimasta immutata. Il libro è un manufatto letterario squisitamente borghese, estremamente affine al Moretti di oggi e ai suoi interrogativi sul mondo, ma anche psicanalitico fin dalla struttura. I tre piani del titolo, infatti, si possono leggere come tre stadi della psiche secondo Freud: Es, Io e Super-io, e ad abitare quest’ultimo è ovviamente lo stesso Moretti. Il suo personaggio ha un nome che è tutto un programma, in rapporto tanto al passato fascista dell’Italia quanto all’agonismo vincente proprio del giovane Moretti sportivo e pallanuotista, ma di mestiere fa il giudice, ruolo pubblico depositario sopra ogni altro della legge e dell’ordine, normativo per definizione, per archetipo e per deformazione professionale. Anche più dello psicanalista, che Moretti aveva già interpretato ne La stanza del figlio dandogli in quel caso (eloquentemente) il suo nome di battesimo, Giovanni.
Tre piani, come spesso accade nel cinema morettiano, s’interroga sul rapporto tra i padri e i figli. Era un figlio Michele Apicella, alter ego storico dell’autore che portava l’ingombrante cognome della vera madre di Moretti, Agata, e sono tutti figli di un mondo senza bussola i protagonisti di Tre piani, compreso il figlio di Dora e Vittorio, Andrea, che non a caso si chiama come il figlio morto de La stanza del figlio. Qui il figlio è invece ancora vivo, ma Moretti non vuole più saperne di lui e non fa altro che esplicitare alla moglie la sua posizione intransigente e pure un po’ oscena (in una dimensione di rovesciamento dei legami di sangue quasi da tragedia greca), da padre ingombrante, moralista e cinico. Non vuole più vederlo, semplicemente, perché era ubriaco quando ha ucciso una donna, macchiandosi di omicidio stradale. Si tratta di un elemento narrativo straziante e lancinante, anche perché Vittorio vorrebbe che Dora facesse altrettanto, e arriva addirittura a ricattarla: o me o lui, con la conseguente, inevitabile aberrazione contro natura di dover scegliere tra figlio e marito. È evidente che Moretti utilizza una forzatura paradossale e innaturale, come spesso ha fatto nel suo cinema, per fare i conti con i propri incubi, per dissezionarli e metabolizzarli con una rabbia sempre più ammaccata e rattrappita (dunque, se possibile, perfino più “vergognosa”).
Rispetto al romanzo di Nevo Moretti aggiunge una sequenza chiave, proprio all’inizio: quella dell’incidente, appunto. Una macchina si schianta nella notte, mancando di pochissimo una bambina, figlia dei personaggi di Lucio e Sara, che osserva impassibile il ragazzo insanguinato nell’abitacolo che ha appena sbalzato di prepotenza una donna sull’asfalto. Un momento che ha un preciso valore in quell’ipertesto in prima persona, autobiografico e nevrotico, che è da sempre il cinema di Moretti: era infatti proprio un incidente stradale, posticcio e un po’ ridicolo (con tanto di linguaccia bambinesca), a dichiarare dapprima vittima di amnesia e poi morto in Palombella rossa Apicella, ben prima che il personaggio venisse fatto morire sotto falso nome ne La stanza del figlio, proprio in coda alla fulminea fase diaristica della produzione morettiana.
Tre piani potrebbe lasciare sorpresi o forse delusi molti per la semplicità esibita, per gli archi narrativi pudici ed essenziali, per l’insolita sortita in un cinema italiano da due (tre?) camere e cucina, consumata negli interni abbienti di una palazzina come tante eppure corredata da drammi così specifici e particolareggiati. Si tratta, tuttavia, di un film estremamente limpido nella misura in cui sceglie un’ostentata impassibilità nella messa in scena, che serve a Moretti per amplificare con ruvida dolcezza i contrasti morali del racconto. La sua regia, a voler guardare oltre la superficie delle apparenze e della fotografia slavata, a tratti sembra inquadrare le cose e le persone, ma pure gli alberi, quasi come in un film dilatato e sospeso dell’amato maestro iraniano Abbas Kiarostami, al quale Moretti dedicò il cortometraggio Il giorno della prima di Close-Up.
In Tre piani a emergere definitivamente, dipanandosi sotto i nostri occhi come una matassa inesorabile, è la visione contemporanea e declinata al presente assoluto di Moretti sulla società e gli individui, articolata in tre atti che si svolgono a cinque anni di distanza gli uni dagli altri, facendo il paio coi tre piani del titolo. Moretti filma anche il sesso come non l’ha mai filmato, complice l’ampia presenza in scena di un rapace e magnetico Riccardo Scamarcio, e abbatte così un altro suo tabù (eccezion fatta per l’amplesso vorace con Isabella Ferrari in Caos Calmo, scena che però non fu diretta da lui ma da Antonello Grimaldi). Il film si chiude poi col solito carosello di danze – altra evidente aggiunta rispetto al libro – proprio davanti al palazzo protagonista della pellicola, ribadendo quanto “veder ballare gli altri” senza poter partecipare attivamente, e limitarsi a desiderare ardentemente di “saper ballare bene”, sia ancora la nevrosi morettiana primaria.
Potrebbe sembrare un film stanco e senile, Tre piani, e invece è a suo modo vitalissimo, meritevole delle premure di un’attenzione scrupolosa e meditata da parte degli spettatori. Per la prima volta Moretti fa i conti frontalmente col proprio lascito artistico e umano, in modi e forme che non è possibile rivelare in questa sede per non sciupare la sorpresa. Ed è, da parte dell’autore, una presa di coscienza inesorabile e centellinata, che passa da una serie di oggetti fondamentali proprio perché grigi, ordini e certe volte pure terribilmente démodé: segreterie telefoniche che funzionano ancora e cancellano la voce dell’infanzia un attimo prima che arrivi la fine, ovviamente le scarpe, conservate in valigie senza meta, autoradio che annunciano raduni di ballerini, dissolvenze al nero che smorzano l’abisso della sofferenza. Ma anche da volti congelati in primi piani sempre a fior di lacrima, che all’interno del film sono chiaramente molti più di tre, e che sono donati alla macchina da presa da attori che, come si diceva nel precedente Mia madre, stanno davvero sempre “accanto ai personaggi”, un po’ dentro e un po’ fuori rispetto alle rispettive parti.
Le loro traversie sono le traversie di tutti, i loro drammi e impulsi drammi e impulsi condivisi e universali, così simili alla materialità traslucida e inconfessabile di certi incubi, a prescindere che si tratti di colpevolezze introiettate, stupri, responsabilità, menzogne, addii o semplicemente di corvi appollaiati con naturalezza in un appartamento, come se il film da camera si ritrovasse a flirtare sottobanco con Edgar Allan Poe. Gli interpreti sono tutti bravissimi; con una nota di merito particolare per Margherita Buy, più che la moglie ancora una volta un alter ego sotto mentite spoglie dello stesso Moretti, e Tommaso Ragno, Caronte cruciale della storia e non a caso l’unico attore che sembra uscito da un vecchio film di Nanni, che avrebbe potuto essere agevolmente una delle presenze bidimensionali e grottesche di Bianca o La messa è finita, sia per come recita che per come porta in scena le sue battute e il corollario implicito ma sfacciato di ossessioni morettiane. A stupire particolarmente è però, sopra ogni altro aspetto, la prova dello stesso Moretti, che riduce se stesso a un’incomparabile smorfia dolente, e che negli anni è diventato sempre più bravo non solo a dirigere gli attori ma anche ad abitare col suo corpo l’inquadratura, facendo del proprio volto una tavolozza, una maschera antica.
Tre piani è “la nostra strada” (di noi, di tutti noi), come recitava un titolo alternativo poi abbandonato e che il personaggio della Buy evoca a più riprese, arrivando però a dire, alla fine, “la mia strada”. Perché siamo pur sempre in un film di Nanni Moretti, il più piano (nomen omen) e disteso di tutti i suoi lavori, e di sicuro il più testamentario. L’importante è non continuare a cercare nel suo cinema la forza d’urto caustica e apocalittica di Michele Apicella, che – ormai lo sappiamo – non tornerà più, proprio come le merendine di quando eravamo bambini.
E chissà se sarà proprio Nanni, a partire dal suo prossimo film, a seguirlo una volta per tutte. A mettersi definitivamente da parte lasciando a fan e spettatori solo un balcone vuoto, come nel finale di Habemus Papam, o un tribunale in fiamme e sotto assedio, come nell’epilogo surrealista e livido de Il Caimano. Per il momento ci rimane questo film, l’ennesimo regalo e un ulteriore gioiello di un autore ancora oggi unico e incomparabile, irrinunciabile perfino in questa nuova veste: insolita, inattesa, imprevedibile, schiva, meditativa e, a dirla tutta, pure un po’ macabra e mortuaria.
Tre piani è, in definitiva, un film solo per morettiani doc, prendere o lasciare. E dunque, perdonando la provocazione: astenersi, auspicabilmente e “per carità di patria”, tutti gli altri.
Foto: Fandango/Sacher Film/Rai Cinema/Le Pacte
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