Il 15 aprile 2013 Jeff Bauman aspetta la ex fidanzata Erin nei pressi della linea del traguardo della maratona di Boston. Sono passate più di quattro ore dall’inizio della corsa, e i migliori sono arrivati circa due ore prima. Bauman ha preparato un cartello enorme a lettere colorate, con cui spera di riconquistare la ragazza. A questo punto scoppiano tra la folla due bombe artigianali, contenute in altrettanti zainetti scuri. Tra i 264 feriti – che si aggiungono ai tre morti – lui è uno dei più gravi: per salvarlo gli devono amputare entrambe le gambe sopra al ginocchio.
Più che l’attentato in sé e la ricerca dei colpevoli (per quello, recuperate lo strepitoso Boston – Caccia al’uomo di Peter Berg), Stronger – presentato ieri alla Festa del Cinema di Roma – racconta il percorso di rieducazione fisica di Jeff, il decorso della sua relazione con Erin (che si trasferisce da lui nei primi mesi dopo il trauma), il rapporto con la madre alcolizzata, ma soprattutto la dimensione simbolica assunta poco a poco dalla sua storia: conteso da televisioni ed eventi sportivi, Jeff – che nelle prime ore dopo l’attentato contribuisce anche alla cattura di uno dei sospettati – diventa l’incarnazione della rinascita di una città intera e un’icona dell’America che “resiste” psicologicamente alla minaccia terrorista.
Molto più biopic che thriller, quindi, Stronger ha il merito principale di non cedere alla tentazione sempre in agguato dello sbocco retorico, almeno fino al pre-finale nelle retrovie dello stadio dei Red Sox, quando Jeff raccoglie la testimonianza di un marine che ha perso il fratello minore in medio Oriente. C’è anzi dentro il film una ammirevole onestà nel raccontare la tensione autodistruttiva, la fiacchezza psicologica e un certo infantilismo del protagonista, legato alla madre da un rapporto soffocante, in cui Erin – unico personaggio sempre positivo del film – finisce compressa.
Jake Gyllenhaal, che produce anche e che prossimamente lavorerà nel nuovo film di Luca Guadagnino, incarna benissimo questo perdente di periferia, ometto qualunque baciato contemporaneamente dalla tragedia e dalla fama, e quindi perennemente disorientato. Ma è Tatiana Maslany a fare davvero la differenza: se il film commuove spesso è perché l’attrice di Orphan Black interpreta con misura e partecipazione il doppio ruolo della donna che deve essere forte sia per se stessa che per il proprio compagno. La sua resilienza al disastro che gli germoglia attorno, la sua pazienza, è tutto sommato un’ispirazione molto maggiore – e più universalmente comprensibile – dell’eroismo sua malgrado di Jeff.
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