Festa di Roma 2019, The Irishman: la recensione di Roberto Recchioni

L'attesissimo film di Martin Scorsese uscirà nelle sale italiane il 4 novembre, prima di approdare su Netflix il 27 novembre

Festa di Roma 2019, The Irishman: la recensione di Roberto Recchioni

L'attesissimo film di Martin Scorsese uscirà nelle sale italiane il 4 novembre, prima di approdare su Netflix il 27 novembre

The Irishman

THE IRISHMAN: ERAVAMO QUATTRO AMICI AL BAR
Sulla carta, un nuovo film di Martin Scorsese assieme ai suoi due attori feticcio, Robert De Niro e Joe Pesci, con l’aggiunta di una guest star d’eccezione come Al Pacino, ambientato nel mondo della criminalità italo-americana, non avrebbe bisogno di alcuna spiegazione perché si racconta da solo. In realtà, The Irishman offre parecchi spunti di riflessione. Così tanti che, per scrivere questo pezzo, ho deciso di schematizzarli. Andiamo a cominciare.

SCORSESE AVEVA DAVVERO BISOGNO DI NETFLIX PER FARE QUESTO FILM?
E la risposta è sì. Per fare questo film, esattamente come è venuto fuori, Netflix è stata decisiva. Prima di tutto per una questione di budget e opportunità: era parecchio tempo che Scorsese girava di Studios in Studios con l’idea di The Irishman sotto il braccio, non trovando mai la giusta sponda. I problemi erano di natura articolata. Da una parte, c’era il costo del progetto (inizialmente stimato attorno ai sessanta-settanta milioni di dollari) che frenava le major dall’investire in quella che sembrava una pellicola difficile in questi tempi di cinecomics, anche perché gli attori che Scorsese voleva che fossero necessariamente coinvolti erano tutti in declino al botteghino e il film, inoltre, proprio a causa dell’impiego di queste vecchie star, avrebbe richiesto l’utilizzo di un certo tipo di tecnologia digitale che non garantiva la certezza di una buona riuscita. Molto diverso è stato l’atteggiamento di Netflix, che ha conquistato Scorsese fornendogli un budget molto più alto di quanto da lui richiesto (si parla di oltre cento milioni), garantendogli l’uscita in sala (nel circuito che il network online sta acquistando per aggirare alcune regole dei premi internazionali) e, soprattutto, lasciandogli mano libera sul final cut.

In sostanza, è stato Scorsese a decidere non solo il montaggio definitivo, ma anche quanto il film doveva essere lungo, senza nessuna pressione da parte della produzione. Anzi, Netflix gli ha proprio detto che più era lungo, tanto era meglio per loro visto il loro modello di business. Il tutto è piuttosto interessante perché se da una parte abbiamo i produttori classici del cinema americano, ormai tutti proiettati nel capire il modello artistico-produttivo di straordinario successo creato dai Marvel Studios e, per questo, sempre più disinteressati a quel cinema classico e autoriale che per molto tempo ha rappresentato la loro offerta di qualità, dall’altra parte abbiamo le nuove piattaforme digitali che quel cinema classico lo cercano, per poter acquistare credibilità agli occhi del mondo. Così, se uno Scorsese ha oggi qualche problema a piazzare un film con De Niro, Pesci e Pacino a un qualche grande vecchio di Hollywood, trova invece le porte di Netflix non solo aperte ma spalancate e con tanto di tappeto rosso.

È STATO DAVVERO UN BENE PER SCORSESE LAVORARE CON NETFLIX?
Sì e no. Scorsese non è nella difficile situazione di alcuni registi d’esperienza che oggi, con gli Studios tradizionali, non trovano più spazio per lavorare e quindi si devono spostare sulle piattaforme digitali per essere ancora trattati come gente di livello, perché al vecchio Martin, alla fine, basta fare un altro film con Di Caprio per tornare immediatamente sugli spalti del mondo. Ma Netflix gli permette di fare il film che vuole, con il cast che vuole, con più soldi di quanti ne abbia chiesti, della lunghezza che gli pare e promosso come fosse un evento epocale. Quindi, in linea teorica e da un punto di vista prettamente legato alla libertà autoriale, sì, per Scorsese è un bene lavorare con Netflix. Ma siamo davvero sicuri che questo valga anche per l’esito complessivo del film?
Cerco di spiegarmi: The Irishman è una pellicola davvero, davvero, lunga. Quasi un rapimento di persona, se visto in sala. Nei cinema in questa forma, con questo taglio, non ci sarebbe mai arrivato se prodotto da Studios tradizionali che avrebbero imposto un minutaggio più digeribile e più commercialmente fruttuoso. E l’opera ne avrebbe probabilmente giovato perché, senza un qualche tipo di controllo, Scorsese si sbrodola un pochino, si dilunga eccessivamente, si compiace, gigioneggia. A Netflix questo interessa poco. Loro sono contenti di avere Scorsese a bordo e sono felici di avere un contenuto straordinariamente lungo, ben sapendo che la loro utenza casalinga difficilmente lo vedrà in una sola soluzione, senza interruzioni per andare in bagno o per mettersi a dormire e finire di vederlo il giorno dopo o, addirittura, in più sessioni, come fosse una specie di miniserie. A me, che il film l’ho visto in sala e che amo moltissimo il cinema di Scorsese, invece, un poco dispiace, perché The Irishman è un poco meno bello di quanto sarebbe potuto essere se qualcuno avesse fatto un minimo di editing alla visione di Scorsese.

SCORSESE AVEVA DAVVERO BISOGNO DI UN FILM COME THE IRISHMAN?
Anche qui, sì e no. No, se prendiamo questo film come l’ennesima dissertazione sul tema della criminalità organizzata italo-americana da parte del regista. Scorsese disse che, dopo Quei Bravi Ragazzi e Casinò e, soprattutto, dopo la serie televisiva dei Soprano, non c’era più nulla che avrebbe potuto dire sull’argomento. E infatti, successivamente, per quanto sia tornato al genere crime con The Departed, si è sempre tenuto lontano dalle atmosfere dei suoi capolavori. Con The Irishman invece, Scorsese, pur portando in scena un protagonista non affiliato con la mafia e di origini irlandesi, torna sulla scena del crimine (è proprio il caso di dirlo) e lo fa bene, mescolando la narrazione speculativa con la cronaca, la biografia con il romanzo, il ritratto speculativo con la storia. Però, ad essere sinceri, il regista non aggiunge nulla a quanto non abbia già detto prima. Perdendo, anzi, un poco di quella vena di imprevidibilità e freschezza che ha sempre contraddistinto i suoi lavori più riusciti sul tema.

Discorso diverso invece, per le tematiche. Le riflessioni di Scorsese sono sempre le stesse: ossessione, colpa e alienazione, ma questa volta si arricchiscono di un punto di vista maturo, senile, che appare inedito. In questo film si tirano le somme di un’esistenza in maniera terminale, non transitoria (come poteva essere, invece, in Quei bravi ragazzi) o interrotta (come in Taxi Driver), è il racconto dell’intera, lunga, vita di un personaggio, dalla sua giovinezza alla sua vecchiaia. Il risultato è il ritratto di un uomo che, attraversando la storia e compiendo tutta una serie di azioni riprovevoli, pare incapace di provare un rimorso o sviluppare un qualche tipo di empatia verso il prossimo. L’Irlandese è un vettore, una linea retta che procede senza deviazioni lungo un percorso stabilito dalla sua agenda personale. Fa quello “che deve essere fatto” senza mai riuscire a scusarsi o a riconoscere le sue responsabilità. Cosa che lo porta a finire come un vecchio, isolato e solo sotto ogni punto di vista, ultimo reduce di un mondo che non esiste nemmeno più.
In questo senso, The Irishman è un film fortemente necessario nell’opera di Scorsese e, per molti versi, conclusivo.

SCORSESE AVEVA DAVVERO BISOGNO DI TUTTI QUEGLI EFFETTI DIGITALI CHE GLI SONO STATI MESSI A DISPOSIZIONE GRAZIE AL BUDGET SOVRADIMENSIONATO?
La domanda è a trabocchetto, vi avverto. Perché sì, ne aveva strettamente bisogno per usare il cast che ha fortemente voluto, ma no, non ne avrebbe avuto alcun bisogno se avesse scelto un diverso roster attoriale o fosse sceso al compromesso di avere più interpreti per lo stesso personaggio. L’effetto complessivo di ringiovanimento digitale è accettabile ma si avverte una certa artificiosità in molti frangenti. Del resto, però, anche quando in altri film ci troviamo davanti ad attori giovani truccati da vecchi si nota spesso il trucco, quindi, non è una cosa così problematica. Ma questa questione ci porta direttamente alla prossima.

SCORSESE AVEVA DAVVERO BISOGNO DI QUESTO CAST?
Sì, senza alcun dubbio. Sia chiaro, The Irishman funzionerebbe anche con un cast del tutto diverso per quello che riguarda la storia portata a schermo dalla pellicola, ma non funzionerebbe altrettanto bene in termini metatestuali. Perché riunire di nuovo De Niro e Pesci in un film che parla, soprattutto, della vecchiaia e della fine di un percorso, è un gesto simbolico forte da parte del regista che sembra volere chiudere, per sempre, un discorso con un suo certo tipo di cinema. Ci saranno altri film di Martin Scorsese in futuro? Sì. Ma saranno del tutto diversi da Quei Bravi Ragazzi o Casinò e coinvolgeranno tutta un’altra generazione di attori, sono pronto a scommetterci. Su questi binari, su queste atmosfere, con un certo tipo di scuola recitativa, Martin Scorsese ha chiuso i conti e si è alzato dal tavolo da vincitore, togliendosi pure lo sfizio di riuscire a far tornare in attività Pesci (con un ruolo di squisita delicatezza), di riuscire finalmente lavorare con Pacino (regalandogli una parte su misura per lui) e di riportare sullo stesso set De Niro e Harvey Keitel.

SCORSESE HA FATTO DAVVERO UN BEL FILM?
Sì, fuori di dubbio. Non il suo migliore, ma uno dei suoi migliori, anche al netto di una lunghezza eccessiva e di una scrittura non sempre così ficcante. Perché per ogni momento bolso e pesante della pellicola ce ne sono poi dieci riuscitissimi, perché il primo atto è al livello dello Scorsese dei tempi d’oro (quello dei primi quaranta minuti di Casinò per esempio, o della folle giornata di Ray Liotta nella parte finale di Quei Bravi Ragazzi), perché ha gestito un gruppo di attori monumentali spingendoli a dare il meglio di loro, spesso in territori che non avevano mai pienamente esplorato prima d’ora, perché è un film che riesce a essere opulento e squallido allo stesso tempo, perché ha tratteggiato con precisione una storia complessa senza mai perdere la bussola morale della narrazione che è ferrea ed impietosa, perché non concede sconti a nessuno, nemmeno a sé stesso. Ma, soprattutto, perché è Martin Scorsese, che di film brutti, non ne ha mai realmente fatti (no, nemmeno Silence o Kundun sono brutti, accettatelo).

IN CONCLUSIONE…
…ho scritto troppo per dire una roba semplice: guardate The Irishman. A casa, in sala, su un tablet o un cellulare, tutto di filato o a puntate come fosse una serie televisiva. Qualsiasi soluzione voi decidiate va bene, perché resterà un bel film comunque.

p.s.
sui film Marvel, Scorsese ha ragione.
Tzè.

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