Un film su De André – Genova negli anni ’60, l’amicizia con Villaggio, il rapporto con Tenco – è una grande opportunità e un grande rischio, non esiste una prospettiva più giusta. D’altra parte se in Italia non raccontiamo questo genere di storie per timore reverenziale tanto vale chiudere tutto e dedicarsi ad altro.
Questa mancanza di reverenza indirizza in pratica tutta l’operazione, Luca Marinelli affronta il ruolo come ne affronterebbe ogni altro, cioè con un’adesione misurata e non mimetica, senza camuffare ad esempio una straniante inflessione romana, ma allo stesso tempo provando a modulare la voce nel canto in modo da imitare De André.
Nella scelta di Marinelli c’è parecchio buon senso, è oggi tra i pochi attori che giustificano una curiosità indipendente da tutto, ha un’impronta forte ma molta misura, e un volto perfettamente cinematografico, non è sbagliato dire che sarà il prossimo Servillo. Il problema era sovrapporre due personalità così forti in professioni diverse, le due cose potevano sommarsi o annullarsi, e la vittoria di Marinelli è proprio in questo gestirsi senza strafare che porta tutti al traguardo.
Funziona anche la scrittura, e non tanto la scelta di fare del sequestro il fulcro della storia – non mi pare ci sia nulla che giustifica la scelta, che ne fa una misura per tutto il resto – quanto il dispiegare la vita attraverso un’aneddotica leggera (nessuna scena madre) ma significativa, cioè dire le cose giuste come se si stesse sempre dicendo altro.
Poi certo, il film finisce molto presto, Dori Ghezzi ne esce come una presenza quasi angelicata (un po’ troppo), e di tutti (dagli impresari ai sequestratori sardi) sembra emergere solo il lato migliore, una specie di elegia generale che probabilmente non fa giustizia all’onestà perturbante del cantautore – lo spettatore galleggia per tre ore sulla fiction senza un’ombra di disagio.
Il secondo problema, ma meno grave qui che ad esempio nell’altro prodotto Rai di cui si sta molto parlando – La linea verticale –, è la distanza tra scrittura / recitazione (bravissimi gli ex allievi dello Stabile di Genova, Gianluca Gobbi e Davide Iacopini) e tutti gli altri comparti, l’incapacità di andare oltre una messa in scena ordinata, di infilare nel quadro un elemento che indichi un significato al di fuori, cioè di costruire una simbologia. O almeno un’atmosfera.
Questo forse è l’unico rimpianto, pensare a cosa poteva diventare la storia di De André in mano a un autore vero con un direttore della fotografia ambizioso, qualcuno che del personaggio avesse un’idea e non solo una versione, qualcuno che ne facesse un film importante.
Foto: © Nexo Digital/Rai Fiction/Bibi Film
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