È probabilmente il miglior attore italiano in circolazione, ma non diteglielo: Elio Germano non ama la celebrità e lo stardom, e ai red carpet preferisce il buio della sala. Esordiente ad appena 13 anni in Ci hai rotto papà di Castellano e Pipolo, da allora Germano ha infilato una serie di film da far tremare i polsi: ha lavorato con Salvatores, con Scola, con Virzì e Placido, con Rob Marshall per Nine, è comparso in Suburra di Stefano Sollima e La tenerezza di Gianni Amelio. Soprattutto, ha stabilito un sodalizio artistico con Daniele Luchetti: Mio fratello è figlio unico e La nostra vita gli hanno regalato due David di Donatello come miglior attore (il terzo è arrivato grazie a Il giovane favoloso di Martone), e ora i due tornano al cinema con Io sono tempesta, in sala dal 12 aprile. Nel film Germano è Bruno, ex proprietario di un bar che dopo il divorzio ha perso tutto (tranne il figlio) e si ritrova a elemosinare la sua esistenza in un centro di accoglienza per poveri. La sua vita, e non solo, cambia quando nel centro arriva il Numa Tempesta di Marco Giallini, imprenditore e palazzinaro “beccato” per frode fiscale e condannato a un anno di servizi sociali: l’incontro tra il miliardario e il nullatenente rivelerà a entrambi che in fondo, soldi o meno, siamo tutti fatti della stessa pasta…
Ciao Elio, è un piacere conoscerti, e soprattutto parlare con te dopo aver visto Io sono tempesta, che è il (bellissimo) film di cui dobbiamo parlare.
«Ah, l’hai visto? Bene, questo ci aiuterà molto nella conversazione! (ride)».
Decisamente, anche perché siete stati molto attenti a non svelare nulla sul film praticamente fino all’altroieri…
«Sai, io penso che i film meritino questo tipo di riserbo, è brutto quando vengono consumati prima della visione. Non mi piace sedermi in sala dopo aver visto mille trailer e letto infiniti approfondimenti, finisce che credi di sapere già tutto e vedi soltanto quello che ti aspetti di vedere – in pratica vai al cinema con un’aspettativa che vuoi vedere confermata. È una modalità di guardare i film che non mi piace, preferisco non sapere nulla di quello che vado a vedere. Da spettatore è una scelta che apprezzo molto»
E che ha funziona benissimo nel caso di Io sono tempesta, che è un film che mi ha sorpreso molto.
«Quello devo dire che è una tradizione di Daniele (Luchetti, ndr): quello che ho imparato lavorando con lui è il piacere nel ribaltare i luoghi comuni e le aspettative, avevamo già cominciato a farlo con Mio fratello è figlio unico. Daniele ama mettere in scena il contrario di quello che uno si aspetta».
Questo è il terzo film che fai con lui, ormai sei un habitué del suo cinema, quindi almeno qualcosa di non sorprendente. Come sei stato coinvolto? Ti ha chiamato Daniele e ti ha detto “ciao, voglio fare un film” e tu hai accettato?
«Con Daniele ci sentiamo spessissimo, praticamente per tutti suoi i film, poi tante cose non vanno in porto, ma con Daniele non c’è bisogno di formalità, basta che mi dica quando iniziano le riprese e io so già che accetterò. Addirittura la prima versione della sceneggiatura di Io sono tempesta è stata scritta con il mio nome al posto di quello del personaggio – e non è la prima volta che lo fa».
Quindi ormai sei abituato a lavorare con lui. Ti sorprende ancora?
«Daniele si mette sempre in discussione, è una cosa che mi piace moltissimo di lui, ogni film è un’esperienza diversa. Non è un regista che ottenuto un successo cerca di replicarlo, piuttosto cerca strade nuove e linguaggi diversi. Anche Io sono tempesta è girato e ragionato in maniera diversa dal solito, nella sua tradizione di stupirsi, programmare il giusto ed essere aperto a quello che accade. Lo sviluppo del mio personaggio, come anche quello degli altri personaggi che sono nel film, avviene nella pratica, in scena, più che sulla carta».
Che è un dettaglio che emerge molto nel film: l’impatto che hanno i personaggi all’inizio, in particolare gli ospiti del centro poveri, è quasi grottesco, uno si aspetta una galleria di caratteri esagerati, poi andando avanti nel film in realtà si scopre…
«… che sono umani?».
Esatto. Ti aspetti che questi “poveri” siano tutta gente che se l’è cercata, che è lì perché ha sbagliato qualcosa…
«E quello è un altro ribaltamento dei nostri modi classici di pensare ai poveri. C’è una parte del nostro cinema che pensa ai poveri come a queste persone super-buone che soffrono sempre, massacrati dalla vita, e quindi vengono trattati con un po’ di buonismo. D’altro canto ultimamente facciamo solo commedia con protagonisti straricchi, invece in Io sono tempesta abbiamo voluto tornare alle vecchie commedie italiane, quelle in cui i ricchissimi si ritrovano all’improvviso in bolletta o al contrario i poveracci finiscono catapultati in contesti lussuosi… quante commedie italiane sono basate su questi rapporti di forza?».
Stai dicendo che ricchi e poveri non sono tanto diversi tra loro.
«È uno dei messaggi del film, nel momento in cui esci dalla caricatura e guardi all’essere umano ti rendi conto che siamo tutti uguali, che sia i ricchi sia i poveri ragionano tutti allo stesso modo, cercano di divertirsi, di godersi la vita, di mettersi qualche soldo in tasca, che siano 10 o 100.000€ la mentalità non cambia. Io sono tempesta inizia che sembra una commedia dei buoni sentimenti con il cattivo che si redimerà entro la fine del film, invece poi si scopre che non ci sono buoni o cattivi, solo l’avventura umana di un gruppo di personaggi nei quali chiunque può riconoscersi, perché siamo tutti esseri umani. In questo senso gli ospiti del centro di accoglienza, che sono un misto tra attori professionisti e veri ospiti di quel centro, sono eccezionali».
Sembra quasi che il film voglia dire allo spettatore “stai attento, perché potresti finire come loro”, dove “loro” però sono sia i poveri sia il Numa Tempesta di Marco Giallini…
«Sì, perché anche lui ha dei bei problemi, un buco nell’anima che lui non sa come riempire. È giusto che sia così: anche i grandi “cattivi” della storia non si comportavano così per pura cattiveria, ma perché erano in cerca di altro. E sui ragazzi del centro poveri, e questo è un altro messaggio forte del film: chi ci dice che se si trovassero nelle condizioni di Numa non si comporterebbero come lui? Schiacciamo sempre le persone in una semplice definizione, e ci vuol poco a ribaltare tutto. Il concetto è che non è la povertà che ti fa essere un uomo migliore, e non è il fatto che non hai soldi in tasca e magari sei straniero che ti fa essere un ladro».
A modo suo è un messaggio estremamente politico, nonostante nel film la politica propriamente intesa sia assente.
«Esatto, non penso che Io sono tempesta sia un film politico in senso stretto: è una commedia, una farsa sociale, che però riesce a essere vera e realistica perché racconta uno spaccato del mondo in cui viviamo; ed è normale che in questo spaccato ci sia anche la politica. L’arte dovrebbe aprire una finestra sul mondo che ci serve per guardare fuori e guardarci dentro, e anche la politica dovrebbe essere fatta così; ma qui dovremmo chiederci cos’è la politica. Poi Io sono tempesta non è un film politico nel senso che non prende la parte di nessuno, non ha alcuna ambizione, non saprei neanche dirti da che parte sta!».
In effetti stiamo parlando di un film che si diverte a giocare con le nostre certezze e farci crollare la terra sotto i piedi.
«È un film pieno di ribaltamenti che non finiscono più, anche di assurdità: il mio personaggio dice che la povertà in Italia è una figata, spiega che è molto meglio essere povero qui in Italia dove ti accolgono e ti danno da mangiare che negli USA dove si dimenticano di te. E in questo modo riusciamo anche a raccontare tutta quella fetta d’Italia che si regge sul volontariato, spesso legato alle religioni o alla politica in senso stretto. Un’altra frase del mio personaggio che mi fa impazzire è “in Italia nessuno soffre più, la sofferenza vera non esiste più, vedo gente che non c’ha una lira ma non c’è più la sofferenza di una volta, quella del giovane Werther”».
È la nostalgia della sofferenza romantica ottocentesca…
«Che ormai non esiste più! I poveri del film sono tutti molto pragmatici. Poi certo, in quanto poveri rimangono anche loro colpiti quando il mio personaggio si presenta con un costosissimo pigiama di marca. È un’interessante riflessione sul potere, e anche su come noi italiani approcciamo certe situazioni: quando vediamo uno straniero ben oltre la soglia della povertà che però ha il cellulare all’ultimo grido non siamo in grado di riconoscerci in lui, di realizzare che anche lui è vittima di uno sfruttamento che ci colpisce tutti, quello che ci porta a essere felici solo se abbiamo l’ultimo prodotto tecnologico; il nostro primo pensiero è “ah, allora non è povero veramente!”. Perché, capito?, se devi essere povero devi essere povero fino in fondo, se no ci fai arrabbiare. Sono riflessioni drammatiche, ma possono anche fare molto ridere».
E voi avete scelto di raccontarle in quest’ultimo modo.
«Sì, il tentativo è anche di farci una risata».
E vi è venuto benissimo, devo dire. In questo senso mi hanno colpito e divertito molto i personaggi delle tre ragazze che stanno con Numa, le escort psicologhe che hanno a cuore la sua salute mentale.
«Anche lì, abbiamo cercato di ribaltare i luoghi comuni: queste tre ragazze che fanno le escort, ma vogliono anche studiare e fare carriera. Studiano psicologia, non sono granché interessate al mestiere di escort in sé, quello che interessa a loro sono i casi umani, la sofferenza: una delle tre, Radiosa, a un certo punto dice “voglio conoscere qualcuno che sta male davvero”, perché nel suo giro di escort conosce, o crede di conoscere, solo gente che sta bene. Rappresentano un altro tipo di gioventù, ragazze di classe sociale agiata e che vivono in un’epoca nuova in cui non solo non c’è più nessun tipo di moralità, ma loro non sentono il peso dell’assenza».
E in effetti considerano normale e naturale quello che fanno, è una parte del loro percorso di vita.
«Esatto, e infatti dicono che quando moriranno daranno il loro corpo alla scienza, perché lavorano con il corpo e vogliono fare del bene anche dopo la morte. All’inizio il personaggio doveva essere interpretato da un’attrice sola, poi Daniele ha scelto di farlo fare a tutte e tre perché era indeciso su chi scegliere (ride). In realtà dovevano essere molte più di tre, poi come ti dicevo lavorando si limano i dettagli e si cambiano le cose. Vale lo stesso nel mondo dei poveri del centro accoglienza, lì abbiamo conosciuto dei personaggi incredibili e non siamo riusciti a metterli tutti nel film: se ci fossero ancora i Monicelli e gli Scola li chiamerebbero subito a fare i caratteristi per loro».
Un’altra delle belle sorprese del film è il ragazzo che fa tuo figlio, che è un attore eccezionale. E poi, correggimi se sbaglio, il rapporto tra voi due mi ha ricordato quello tra Benigni e il figlio in La vita è bella: padre e figlio in una situazione terribile in cui il padre fa tutto per addolcire la pillola. Con la differenza qui tuo il figlio è furbo e se ne accorge…
«Esatto, il meccanismo è quello, però il figlio non ci casca davvero, diciamo che si lascia infinocchiare con profonda pietas per il padre e anche profonda maturità. Con Daniele dicevamo che è come se il padre fosse il figlio, o come se i due fossero fratelli. Il mio personaggio è un padre sbagliato, ma ha un profondo amore per suo figlio: ancora una volta, essere un padre sbagliato non significa per forza essere odioso o violento, Bruno è semplicemente un papà che ama in maniera sbagliata, e infatti il suo maggior momento di orgoglio è quando il figlio viene promosso a pieni voti – suo figlio studia, e non sa neanche da chi abbia preso questa voglia di fare!».
Anche perché nel film la tua ex moglie è una figura assente, non sappiamo neanche il suo nome, sappiamo solo che a un certo punto se n’è andata ed è crollato tutto.
«Qui torniamo al mondo di fantasia del film e a come si collega a cose verosimili: tutte queste storie che hanno del rocambolesco alla base di tutto hanno la verità. Al centro poveri dove abbiamo lavorato per il film si fanno tantissimi incontri di questo tipo, dall’Italia e dal mondo: gente che si ritrova per i motivi più disparati a perdere tutto, chi per colpa della ludopatia (che oggi è un problema gravissimo, e tra l’altro finanziato e fomentato dallo Stato), chi di un matrimonio fallito e di un avvocato crudele, chi ha scommesso su un’impresa e ha perso tutto. Alla fine il film è uno specchio della realtà, e l’idea della scommessa, di rischiare tutto, è un tema forte: c’è chi rischia con il gratta e vinci, e poi c’è gente come Tempesta che non fa niente, che non sa fare niente con le mani, campa del lavoro di altri vendendo e comprando azioni, e fa un lavoro che di fatto è una scommessa tanto quanto il calcio o l’Enalotto. La vita di Tempesta è una grande partita di poker con gli altri, un bluff, che poi è quello che sta alla base della nostra finanza».
In effetti a tratti ti viene da pensare: “Perché dovrei provare empatia con questa persona che imposta la sua vita così?”.
«Come sempre, una volta che viene fuori la sua umanità la situazione si fa più complessa, ed è così che ci affezioniamo anche a cose sbagliate – magari perché le riconosciamo dentro di noi».
Ho avuto l’impressione che Daniele Luchetti si sia divertito molto a girare questo film, che è molto cinematografico – c’è persino una citazione di Shining.
«Non voglio ripetermi, ma sì, abbiamo lavorato al contrario rispetto al solito, usando obiettivi molto larghi, tante macchine da presa ma quasi nessuna a mano, inquadrature fisse… è uno stile molto classico, quello dei grandi film, delle epiche».
Anche le location, sia l’albergo di Numa sia la periferia poverissima di Roma, sono sempre riprese e raccontate in questo modo, spesso con campi lunghissimi…
«… che danno un valore epico al film, esatto. È come se fosse un’epopea».
Aiuta anche la struttura a capitoli, Io sono tempesta è un film molto ellittico che lascia molto spazio di interpretazione allo spettatore.
«Sai, per questo film abbiamo girato un’infinità di scene, quindi dev’essere stata dura in fase di montaggio decidere cosa tenere e cosa eliminare».
C’è persino una parte in Kazakistan, mi sento scemo a chiederlo ma… l’avete girata davvero lì?
«Ovviamente no, l’abbiamo girata in una parte molto triste di Roma in realtà (ride). No dai, non è del tutto vero: gli esterni li abbiamo girati a Campo Imperatore in Abruzzo, mentre le parti in campagna le abbiamo davvero fatte dietro Roma, alle cave della Magliana, dove si giravano gli spaghetti western di una volta».
Ecco perché il paesaggio mi era familiare anche se non sono mai stato in Kazakistan!
«Ormai quelle location sono ovunque, le riconosciamo tutti (ride)».
C’è da dire che funzionano molto bene.
«Ma certo, basta mettere un kazako a cavallo e il funerale con il pope e subito hai il Kazakistan. Che poi, per dire, il pope in quella scena in realtà era un milanese… certo, almeno in quanto milanese era straniero, quindi aveva un minimo di aria esotica (ride)».
In La fine è il mio inizio hai interpretato il figlio di Tiziano Terzani, il quale quando parlava di soldi e felicità diceva che il vero segreto è accontentarsi e non volere sempre tutto. Come lo prenderebbe il tuo personaggio nel film un consiglio nel genere?
«(prende un respiro, ndr) Guarda, quello che sta succedendo oggi, ed è una cosa che ho avuto modo sia di studiare sia di notare girando per il mondo, è che viviamo tutti in questa grande illusione che è la corsa alla serenità. Sembra che la serenità sia sempre una cosa da raggiungere, una cosa lontana che un giorno arriverà anche per noi. La nostra concezione del tempo è sempre più verticale e ci porta a inseguire ogni cosa, se non siamo ricchi inseguiamo i soldi, se diventiamo ricchi inseguiamo una donna… la felicità è sempre appena fuori dalla nostra portata. E probabilmente questo stato di cose produce ricchezza, perché ci stimola a comprare oggetti in continuazione nel tentativo di essere felici. Ci sono alcuni che hanno la fortuna di leggere questo bluff e andare oltre, ma ci vuole un’esperienza forte per farcela: potrebbe essere quella del milionario che ha fatto talmente tanti soldi da capire che ha buttato via il suo tempo e quindi si mette a fare beneficenza, oppure una tragedia improvvisa come un terremoto o la morte di uno dei nostri cari – quando la vita ci prende a schiaffi, insomma. E poi ci sono quelli che non sono ancora stati contaminati: quando viaggi in posti percepiti come estremamente poveri e culturalmente arretrati scopri che le persone hanno ancora una concezione del tempo che è circolare, come la vivevano i nostri nonni quando ancora l’Italia era un Paese contadino, e trovano lì la loro serenità. Il vero paradosso di oggi è che a questo tipo di riflessione arrivano soprattutto le persone più ricche, che sono già arrivate, a cui è andata bene: perché se invece sei uno a cui le cose non vanno bene alla fine è sempre colpa tua, non del sistema, sei tu che ti senti imperfetto, che pensi di dover migliorare, e quindi ti deprimi, ti ammali… Invece i vincenti, quelli che sono arrivati al top della loro categoria, hanno l’opportunità di capire che c’è altro nella vita. Chi abbandona la gara è perché è già arrivato primo, è questo il problema. Anche Terzani era uno che aveva già fatto quel percorso, altrimenti non so se avrebbe detto quelle cose. Non so se ho risposto alla tua domanda…».
Assolutamente: il problema è che se sei un vincente e fai un discorso del genere a un perdente lui non lo coglierebbe.
«Esattamente. Non ci rendiamo conto che esistono altri modi per raggiungere la serenità e la felicità, per noi la vita è una costante gara uno contro l’altro. La conseguenza è che fai di tutto per proteggerti e quindi ti metti contro gli altri, mentre la protezione vera arriva da loro, non dai tuoi soldi. Veniamo allevati per gareggiare, siamo competitor, non esseri umani. Pensa a Numa: ha impostato la sua vita sul fregare gli altri e nel momento in cui gli altri gli servono davvero si ritrova da solo».
A quel punto diventa quasi una questione di karma…
«Oddio, il karma è un po’ troppo esotico, non andiamo a scomodare l’Oriente che poi sembra una cosa new age da persone ricche (ride)».
OK, chiedo scusa per l’appropriazione culturale, ma il concetto resta quello, no?
«Diciamo con una metafora di casa nostra: quello che semini raccogli, così torniamo all’Italia contadina e al tempo circolare. Prima eravamo una comunità, ora invece chi vince sta più comodo degli altri, ma sta anche più da solo».
Questo aprirebbe una serie di discorsi sullo stato del Paese che però ci risparmiamo…
«Sì dai, anche perché sei uno dei pochi che mi chiama per parlare di cinema: di solito i giornalisti con me vogliono parlare solo di politica, mi fa piacere che me lo risparmi (ride)».
Be’, colpa tua che hai la fama di attore impegnato…
«Impegnato in cosa poi non si sa (ride). Spero quantomeno nel mio lavoro!».
A tal proposito, chiudiamo parlando del futuro: dove ti vedremo dopo Io sono tempesta?
«Sto portando in giro lo spettacolo teatrale La mia battaglia, l’ho scritto io, è un monologo che ho portato in giro quest’anno e direi che replicherò anche l’anno prossimo. Per il cinema, a parte il film di Luchetti, giusto stamattina c’è stata una conferenza stampa sul mio prossimo progetto quindi posso dirtelo: sarò nel nuovo film di Giorgio Diritti».
L’intervista è pubblicata su Best Movie di aprile, in edicola dal 3 aprile
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