Nell’agosto del 2017, due mesi dopo la scomparsa di John G. Avildsen, uscirono un libro e un documentario dedicati ai film del regista. Entrambe le opere, sin dai titoli, lo definivano un “underdog” hollywoodiano, uno sfavorito (capace però di ribaltare il pronostico), proprio come i due personaggi più famosi che aveva portato sullo schermo: Rocky Balboa e Daniel LaRusso.
Facciamo un salto indietro, alla notte degli Oscar del 1977. La statuetta per il miglior film se la contendono due pellicole date per favorite: Tutti gli uomini del presidente, impegnatissimo film di Alan J. Pakula sullo scandalo Watergate con Dustin Hoffman e Robert Redford, e il drammatico Taxi Driver di Martin Scorsese, con Robert De Niro.
In lizza c’è anche un trascurabile polpettone di Hal Ashby, Questa terra è la mia terra, e l’ambizioso (ma non pienamente riuscito) Quinto potere di Sidney Lumet. A chiudere il gruppo, come un imbucato a una festa di ricconi, Rocky, un film minuscolo che ha dilagato al botteghino, ma che nessuno crede possa anche venire premiato dall’Academy.
La storia sappiamo come è andata: non solo Rocky vince l’Oscar per il miglior film e per il miglior montaggio, ma Avildsen si porta anche a casa la statuetta come miglior regista. Dovrebbe essere la sera più bella della sua vita e l’inizio di una carriera sfolgorante; invece, le cose prendono una piega più amara e imprevedibile, anche se non tanto difficile da immaginare. Perché Rocky viene visto sin da subito come un film di Sylvester Stallone e di Stallone e basta. Del resto, quella storia l’attore italoamericano l’ha ideata cucendosela addosso, l’ha scritta con amore, l’ha protetta con forza, e l’ha portata avanti con determinazione, contro tutto e tutti.
In Rocky c’è tutto Sylvester Stallone e chiunque gli stia accanto viene oscurato dalla sua ombra. Poco importa che il tono dimesso e realistico, il ricercato squallore, e l’antiretorica del film, siano propri della cinematografia di Avildsen e direttamente riconducibili alla sua regia.
Tutto in Rocky è opera di Sly. Non è quindi difficile capire perché il regista passi la mano per il sequel (che, infatti, viene affidato a Stallone anche per la regia) e preferisca dedicarsi a La febbre del sabato sera, un film che con Rocky ha parecchi punti in comune, ma che Avildsen non riesce a girare, lasciando la produzione un mese prima dell’inizio delle riprese per inconciliabili differenze di vedute artistiche con la produzione.
Il film con Travolta è un enorme successo. Da quel momento in poi, le cose per Avildsen iniziano a prendere una brutta piega. Il suo film successivo al grande successo di Rocky finisce per essere Ballando lo slow nella grande città, una pellicola destinata al fallimento già dal titolo che non riscuote l’interesse di nessuno.
Va peggio a La formula, che ugualmente non attira le attenzioni del pubblico ma che riesce a destare quelle della critica, che infatti candida il regista a un Razzie Award per la peggior regia dell’anno. Le cose non vanno meglio con I vicini di casa, dove Avildsen litiga tutto il tempo con John Belushi e Dan Aykroyd, finendo per farsi mettere in un angolo dai due comici (all’epoca fuori controllo, tanto è vero che Belushi morirà appena due mesi dopo l’uscita del film). A quel punto siamo nel 1982 e la stella di Avildsen sembra essersi eclissata, se non fosse che uno script molto simile a Rocky finisce nelle mani del produttore Jerry Weintraub, che ha un’idea: chi può dirigere un Rocky in salsa teenager e con il karate al posto della boxe, se non… il regista di Rocky?
Avildsen accetta l’incarico, sia perché non ha niente di meglio per le mani, sia perché quello script gli potrebbe dare l’occasione di togliersi qualche sassolino dalle scarpe e far capire al mondo quanto non solo da Stallone dipendesse il successo del film che gli era valso un Oscar. Le cose vanno bene e male. Da una parte, The Karate Kid – Per vincere domani è un enorme successo di pubblico e ha un ottimo riscontro di critica. Dall’altra, nessuno sembra collegare che il regista sia lo stesso di Rocky, anche perché la cosa non è per nulla sbandierata dalla promozione. Se Rocky è un film di Stallone, The Karate Kid è quel film dove il ragazzino sfigato viene istruito dal maestro giapponese a mettere e togliere la cera. Ed è un peccato, perché per quanto The Karate Kid sia una pellicola dalla portata nettamente inferiore a Rocky, ne condivide alcuni dei tratti migliori, che sono proprio dello stile del regista.
Memore della lezione di Rocky, questa volta Avildsen gira anche i due seguiti, ma non è una buona idea, perché i film vengono accolti molto male dalla critica e sempre più tiepidamente tra il pubblico. Nel 1990, il regista si riunisce con Stallone (in una delle fasi calanti della sua carriera) e realizza un Rocky V che quasi uccide il franchise (ma non era male come in molti dicono). L’ultima pellicola di Avildsen è del 1999, Fino all’inferno, uno dei film più oscuri di Jean-Claude Van Damme. Muore nel 2017, dimenticato dai più. Abbastanza ingiustamente.
ALCUNI MOTIVI PER DEFINIRLI DUE CLASSICI
- Per la sempre attenta rappresentazione di una piccola umanità posta ai margini, in cerca di riscatto sociale
- Per la perfezione dei loro script
- Per la bontà delle interpretazioni
- Per l’invenzione della “sequenza dell’allenamento”
- Per le loro colonne sonore
- Per il montaggio
- Per lo stile lontano da ogni retorica
- Per il fomento del “combattimento finale”
© Shutterstock (1), Chartoff-Winkler Productions (1) Columbia Pictures, Delphi II Productions, Jerry Weintraub Productions (1)
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