In Stacy non c’è solo Gipi, c’è il mondo intero: c’è quello che siamo diventati in questi anni di qualunquismo e approssimazione, c’è quello che non volevamo essere e c’è quello in cui, con buone probabilità, siamo destinati a trasformarci.
Il protagonista, Gianni, è uno scrittore prestato alla sceneggiatura. Dopo la pubblicazione di un’intervista in cui dice di sognare di rapire una ragazza, Stacy appunto, viene travolto dalle polemiche. Apriti cielo: sogno e realtà finiscono per confondersi, ribaltarsi, sovrapporsi. Gianni perde la sua serie, rischia di perdere il suo lavoro, e deve ricominciare. Come una formichina che s’arma di pazienza per risalire il tronco di un albero. Sembra impossibile, forse è inutile; sicuramente è una grande fatica. E l’esito è imprevedibile.
Stacy è tutto così, pieno di curve, di passi indietro, di salti, di punzecchiature. Gianni parla con Gianni, che però non è Gianni. Vive in due dimensioni contemporaneamente: una sua, intima, che s’annida nelle pieghe del suo cervello; e un’altra pubblica, che condivide con chiunque altro: chi l’ha abbandonato dopo l’intervista e chi, invece, continua a lavorare con lui. Gipi fotografa la nostra industria culturale, e nonostante le libertà che si prende – questo è un racconto di finzione, non un documentario – trova sempre il modo per mettere alla berlina la nostra ipocrisia e il nostro benaltrismo.
Ogni pagina è ricca di tensione e angoscia, di rabbia e confusione. Gipi è tornato al bianco e nero, come ne La terra dei figli, e ha messo da parte, almeno per ora, gli acquerelli: tratteggia, incide, rimarca. Ha scritto intere pagine di parole, dividendosi tra finte sceneggiature e una sorta di diario. Stacy, il nome della ragazza che Gianni rapisce e del libro, ritorna puntualmente, come un tormentone. Funziona da stacco tra un momento e l’altro. È come il nero che riempie lo schermo al cinema: non spezzetta il racconto; fa da collante. Di Stacy non si deve parlare: è la regola numero uno. Stacy non va nominata, nemmeno per sbaglio. È pericoloso, c’è il rischio di fare danni irreparabili, di tornare alla prima casella di questo gioco da tavolo che è la vita. E allora attenzione, zitti, adeguiamoci. Facciamo finta di niente. O almeno, sì, facciamo finta di niente alla luce del giorno, mentre siamo con quelli normali: quelli che sembrano pensare davvero quello che dicono (oppure no, ed è tutta una farsa: chi lo sa).
Stacy, pubblicato da Coconino Press, è un fumetto che non conosce vie di mezzo, che è dritto, serio, divertente. È assurdo, a tratti surreale, quasi kubrickiano, forse fincheriano, decisamente gipiano: la voce del protagonista è la nostra voce e allo stesso tempo è la voce di un estraneo che vive dentro di noi, che ci tormenta, che – scorticato e glabro – è il figlio di aspettative, traumi e sofferenza. Stacy, ha detto Gipi, è nato unicamente da sentimenti negativi. E anche questo, se vogliamo, è interessante. Perché ci ricorda che la creatività non lavora solo in una direzione. La creatività coincide con la quotidianità di un autore o di un’autrice; coincide con i loro dolori, la loro infelicità e le loro insoddisfazioni. La creatività è un’estensione di quello che proviamo. È una delle tante facce di quello che siamo.
Stacy è arrivato in un momento particolare della vita e della carriera di Gipi ed è una sintesi precisa di quello che ha dovuto attraversare – di più, che ha dovuto superare – per essere qui, oggi. Stacy è un regalo perché ci catapulta nella sua testa.
© Coconino Press
© RIPRODUZIONE RISERVATA