Enfant prodige, genio, talento, fuoriclasse, maestro.
Dal suo esordio a oggi, Bastien Vivès è stato tutte queste cose e anche di più. I giornalisti e i critici l’hanno beatificato nel giro di pochi mesi; gli editori l’hanno visto come una nuova speranza e i lettori se ne sono innamorati. A volte sinceramente; altre conservando – con giudizio – il beneficio del dubbio. Il gusto del cloro (Coconino Press) è stato uno dei primi passi di una lunga carriera. Poi sono arrivati l’euromanga Last Man, Una sorella e, solo pochi giorni fa, L’ultimo week-end di gennaio, tutti pubblicati da Bao Publishing. Nello stesso tempo, però, sono stati stampati anche i fumetti pornografici di Vivès e su quelli, proprio recentemente, si è consumata una discussione accesa ed estremamente sentita. Le accuse sono state diverse: Vivès incentiva la violenza sulle donne e i suoi contenuti sono pedopornografici. In più, dal passato, come una valanga che non ne vuole sapere di fermarsi, sono tornati a galla anche vecchi post, in cui Vivès insultava, e insultava pesantemente, un’altra autrice; e interviste ambigue, dove la voglia di sbalordire si mischia alla confusione dei toni e all’approssimazione delle intenzioni. Vivès è innocente o colpevole? Davvero la sua mostra al Festival di Angoulême meritava di essere cancellata? Onestamente? Non lo so.
E dico così perché sul tavolo ci sono troppi elementi e troppe voci, e trovare una nettezza, nei giudizi e nelle parole, è difficile. Ho letto i post su Facebook e ho letto le interviste: e su quello non c’è assolutamente niente da dire; Vivès ha sbagliato. Più sui primi che sulle seconde.
Sui suoi fumetti, invece, non sono così sicuro. Perché li ho sempre visti, e forse l’ho fatto un po’ ingenuamente, come il tentativo di sconvolgere, stravolgere e scuotere. Vivès colpisce l’ipocrisia della piccola borghesia, e lo fa dicendo l’indicibile. Per me è sempre stato questo il punto. E, in parte, continuo a crederlo. Soprattutto dopo aver letto L’ultimo week-end di gennaio, un’opera intrisa di malinconia, tristezza e nostalgia. Un’opera, aggiungo, profondamente matura e consapevole. Ho provato a riflettere e a farlo nel modo più onesto possibile.
Chi legge questa rubrica sa che ho scritto più volte di Vivès; e sa che non ho mai nascosto il mio apprezzamento per le sue opere. Non riesco a non pensare a una scena di La persona peggiore del mondo di Joachim Trier. Il protagonista, in quella sequenza, è un fumettista. Durante una trasmissione radiofonica, il suo passato – e quindi i suoi libri, i suoi eccessi e i suoi errori – vengono citati e ripresi, e lui si ritrova con le spalle al muro.
Alza i toni, sbaglia. Poi dice una cosa, per me, fondamentale: l’arte è una via di fuga, serve a dare ordine al disordine; un fumetto è un modo per affrontare la mia perversione, la mia mostruosità, e per condividerlo con gli altri; non è quello che sono, è quello di cui voglio parlare. Ecco, secondo me, questa vicenda si può riassumere così. Dividendo l’arte dall’artista, i desideri dagli obiettivi, il male non voluto, e comunque fatto, dal male inseguito ed evocato. Ci lasciamo prendere dall’onda dell’emotività, e perdiamo di vista l’obiettivo. Forse è il momento di farsi indietro, respirare a fondo e provare ad ascoltare. Entrambe le campane, non una sola. Io, partendo dal film di Trier, sto cercando di fare esattamente questo. Perché? Perché voglio imparare.
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