Su Cheese di Zuzu, pubblicato da Coconino Press, è stata scritta qualunque cosa. Capolavoro, cult, esordio esplosivo. Un fumetto detonante, che colpisce al cuore. Ma anche: il diario di una ragazza, la storia di una generazione, la confessione di una giovane donna. «Quando mi chiedono se il mio è un libro che racconta un preciso momento della vita, rispondo di sì, ma è un momento che può appartenere a qualunque età, non solo all’adolescenza», dice Zuzu; e nella sua voce risuona una consapevolezza precisa, tipica di chi sa essere paziente e, allo stesso tempo, chiaro. «È quel momento in cui fai i conti con te stesso e con le cose che rischiano di farti felice, e in cui prendi una decisione che è un po’ un salto nel vuoto». In Cheese una decisione così importante e così fondamentale c’è. Ma è solo una parte di una storia più ampia e che non coincide – non così fedelmente come qualcuno potrebbe pensare – alla vita della sua autrice. «La gente capisce cosa pensi di te stessa, qual è il livello della tua autostima», continua Zuzu. È una frase che le viene fuori calma, per niente pretenziosa, estremamente sincera. «Una persona che vive con serenità la propria vita è una persona decisamente più piacevole rispetto a una che ci sta lottando e che non si apprezza. Mi rendo conto di piacere quando mi piaccio, di essere in grado di coinvolgere gli altri quando sono la prima a lasciarmi coinvolgere».
Quando hai deciso di fare fumetti?
«Quando ho iniziato l’università, anche se non li avevo mai fatti prima. Quando è arrivato il momento di lavorare alla tesi di laurea, la scelta di fare un fumetto, di fare Cheese, è stata – lo confesso – un azzardo. Ma ho avuto la possibilità di lavorare con Ratigher ed è stata un’occasione veramente importante, perché mi ha aiutato molto».
Da dove sei partita?
«I tempi erano abbastanza brevi, e in un primo momento non sapevo con precisione che cosa volessi raccontare. L’unica cosa di cui ero certa era che avrei voluto parlare di disordini alimentari. La fretta mi ha fatto fare i conti con la mia urgenza, ed è così che è nata questa storia. Forse perché era quella più pronta a prendere vita».
Il primo fumetto che hai letto è stato La mia vita disegnata male di Gipi.
«Leggerlo mi ha fatto capire quanto sia importante la storia e quanto sia importante riuscire a raccontare qualcosa di coinvolgente, che ti piace, che riesce ad appassionarti. Il segno, poi, si piega alla storia. La mia vita disegnata male mi ha insegnato questo, e quando poi ho avuto modo di conoscere Gipi e di lavorarci insieme, per ampliare la trama di Cheese, è emersa anche un’altra cosa».
Cosa?
«Che c’è gente che spende tempo e soldi per te, e quindi è importante impegnarsi per fare qualcosa di veramente interessante e onesto. Non è autobiografico, Cheese. Non è un diario personale. È la mia vita che si adatta a una storia».
La cosa più importante, hai detto, è saper osservare e non saper disegnare.
«Bisogna andare oltre sé stessi e dedicarsi al resto. Bisogna riuscire a mettersi in discussioni. Altrimenti c’è il rischio di raccontare sempre la stessa cosa. È importante fare, prendere la penna e provarci. Tutti quelli che si avvicinano al disegno hanno l’ossessione della tecnica: come si fa, da dove si parte. Ma non è tanto questo il punto. Piuttosto è importante saper osservare. E poi si arriva a una sintesi: tra quello che si vede e quello che disegni».
Che cos’è il talento?
«Il talento è quella cosa che ti motiva a continuare, ad andare avanti. È la benzina. Tutto il resto viene dalla pratica e dall’esperienza. Ma il vero talento, secondo me, è la motivazione. La tecnica si può imparare».
Il fumetto continua ad essere una “cosa per uomini”?
«Una donna, forse, arriva più tardi di un uomo al fumetto. Nell’immaginario comune, quando si parla di fumetto, si parla di supereroi. Non è detto che a una bambina non possano piacere i supereroi; ma è molto più difficile che i suoi genitori le comprino un fumetto sui supereroi. Io ho scoperto il fumetto a 18 anni».
Non ci sono differenze?
«Le fumettiste donne ci sono e non vengono discriminate per quello che fanno. Noto, però, che se un tema viene trattato da un uomo o da una donna suscita una reazione diversa. Prendi Cheese. Mi chiedono sempre se seguo una dieta, se mi sento bella. Forse a un ragazzo chiederebbero di salute mentale e di come questi problemi vengono affrontati».
Bisogna cambiare.
«Per molto tempo la donna è sempre stata vista come figlia, come moglie e come madre. Quindi sempre in funzione di qualcun altro. È ovvio che se parti da questa premessa viene difficile immaginarsi una donna che fa le cose solo per se stessa. È un retaggio culturale che ci portiamo dietro da tanto tempo. Una donna se si fa bella è, pensiamo, per gli altri. E invece è importante essere belle per se stesse».
Tu, oggi, come ti vedi?
«Mi vedo per quella che sono. Sono lucida. Sto facendo pace con me stessa, con il mio corpo e con il mio cervello. Somiglio sempre di più ai miei genitori, e ti dirò: mi accetto»