Per i pochi che non lo conoscessero, Igort (Igor Tuveri) è fondatore e direttore editorale di Oblomov edizioni, direttore artistico di Linus, fumettista pluripremiato ma anche musicista, romanziere, sceneggiatore e ora anche regista. Per il debutto alla regia ha infatti deciso di adattare il suo graphic novel di culto: 5 è il numero perfetto.
Tra gli eventi più attesi del 2019 per quel che riguarda il cinema italiano di genere, al Comicon di Napoli sono stati presentati in anteprima i primi sei minuti del film.
Siamo a Napoli, negli anni ’70, e seguiamo le vicende di Peppino Lo Cicero, interpretato da un irriconoscibile Toni Servillo. Peppino è un guappo (assassino al soldo della camorra) “in pensione” costretto dagli eventi a tornare in azione. Nelle scene iniziali lo vediamo presentarsi e andare dal “gobbo” a cercare l’arma col quale dovrà tornare in campo, ora che c’è suo figlio da vendicare.
Atteso tra la fine di agosto e i primi di settembre, c’è chi vocifera su una possibile partecipazione del film al Festival di Venezia, ma su questo Igort, in dialogo sul palco con Giorgio Viaro, non si è pronunciato. Sono state però tante altre le cose svelate.
Il film
«Si parla di questo film da 13 anni, abbiamo attraversato diverse fasi anche estetiche e a un certo punto non lo volevo dirigere perché il cinema ha dei tempi strani, prevede una lunga preparazione e poi si va come un missile, mentre io sono uno che aspetta le idee. Ma alla fine anche attraverso vari incontri con la costumista Nicoletta Taranta o col direttore della fotografia Nicolaj Bruel, oltre che col magnifico Toni Servillo, che interpreta il protagonista Peppino Lo Cicero, mi sono deciso a dirigerlo».
Il cast
«Quando vedevo le parole attraversate dalla carne, un attore recitare la sceneggiatura e dargli vita io non riuscivo a trattenere lacrime. Piangevo continuamente davanti al monitor e gli altri invece che farmi a polpette hanno iniziato a volermi bene. È stata un’esperienza molto forte e al contempo molto dura, stare su un set è diverso dal disegnare e scrivere perché c’è un’esperienza della solitudine che ti è negata e un buio che spesso è utile per far fiorire le idee che è impossibile, devi sempre spiegare a tutti cosa vuoi, subito, anche le cose che magari stai iniziando a capire in quel momento. Ma è anche l’occasione di grandi incontri. Nel cast ci sono anche Carlo Buccirosso e Valeria Golino. Con Valeria c’è stato un rapporto molto antico, per me era da subito una figura presente nel film e negli anni le ritornava il copione tra le mani. Penso che lei sia in qualche modo la protagonista segreta del film perché è l’unica che sa dove vuole andare e va dritta fino al punto, è innamorata di Lo Cicero, e la sua vita è circondata dalla malavita, ma rimane una maestrina, la più colta dell’ambiente. Valeria poi è molto interrogativa sul set, e ha una istintività pazzesca. Carlo Buccirosso invece di solito si presta a ruoli comici o ironici, qui invece doveva concedersi a un ruolo più serio, ma il suo personaggio ha una grande gamma di sincerità e insincerità per cui la sua comicità ci ha molto aiutato».
Dal fumetto al film
«In 13 anni di processo questa alla fine era la decima stesura della sceneggiatura. C’è stato un lungo lavorare sui testi e anche dopo, nel montaggio, per tenere un equilibrio narrativo che desse quella cadenza che il film prende naturalmente. Walter Fasano è stato il secondo montatore che è subentrato a Esmeralda Calabria, grandissima professionista con cui però non è scattata la sintonia che mi aspettavo. Walter ha appena vinto il David come sceneggiatore e io non sapevo nemmeno sceneggiasse, ma mentre montavano l’ho capito, ho avuto subito l’impressione che fosse uno che sapesse scrivere. Abbiamo composto utilizzando uno sguardo molto musicale, togliendo ciò che non serviva allo scopo. Per esempio nel fumetto ci sono parecchie parti oniriche, sogni del padre e del figlio e avevamo provato a inserirle in animazione, ma diventava tutto troppo artificioso. In un film la presenza dei corpi nello spazio cambia tutto e così abbiamo iniziato a tagliare delle cose e alla fine non ho usato le animazioni proprio per non interrompere quel ritmo che è dato dalla fisicità degli attori. Per me era importante servire la storia, raccontare questo viaggio attraverso l’esistenza in quei momenti precisi di questi personaggi. Ci sono anche cose che non c’erano nel fumetto, ad esempio il Gobbo che abbiamo visto in questi primi minuti».
Fotografia
«Con Nicolaj Bruel c’è stata la maggiore intesa artistica che ho avuto in vita mia. Sono un tipo curioso e amo lavorare con persone diverse da me e che lavorano in altri campi, con lui è stato incredibile perché quando mi ha mandato le prime referenze dopo che gli avevo già spiegato quello che volevo, lui ha rilanciato e col rischio che lo mandassi via perché non confacente a quel che avevo richiesto. Invece il suo osare era molto potente e io sono rimasto immobile davanti al computer, come pietrificato. E così ho scelto. Potevo lavorare con mostri sacri della fotografia cinematografica ma con lui c’è stata subito una sintonia unica, ce ne siamo accorti anche perché cercavamo le stesse cose nelle location durante i sopralluoghi. Sembravamo due bambini nel paese di balocchi. Volevamo raccontare Napoli in una maniera strutturale al film, non realistica o naturalistica ma nemmeno livida e “frontale” come Gomorra ci ha abituati. La nostra è una Napoli molto notturna, piovosa, deserta, a volte c’è la nebbia. Volevamo stilizzare, e la sfida era lavorare con questi grandi attori con una sceneggiatura in napoletano servendo una Napoli che non era quella solita, ma necessaria per essere vicini alla storia. Io ho iniziato a scrivere questa storia a Tokyo perché volevo fare una storia italiana e ho iniziato a pensare a Napoli, poi sono venuto in città per fotografarla, e osservarla. Napoli è una città per me molto importante».
La nostalgia
«Mono no aware la chiamano i giapponesi, il nome l’ho scoperto negli anni, prima era un sentimento per me inconsapevole. I giapponesi la ritrovano anche nel cinema di Ozu o Naruse e sono autori e sentimenti nei quali mi riconosco e identifico. Anche quando parlavano con Servillo era ricorrente dire che dovevamo raccontare i personaggi come se fossero due vecchi cavalieri in arnese che si ritrovano, e che hanno l’urgenza di tornare in pista. C’è questa malinconia di base perché non sanno se ce la faranno, ma ce n’è uno, Peppino Lo Cicero, che deve farlo assolutamente perché gli hanno ammazzato il figlio, e l’altro Toto Macellaro che ci si trova in mezzo, che lo deve affiancare perché è il suo vecchio compare di missioni per la Camorra. Questa idea era di per sé crepuscolare, e c’è la consapevolezza che questi vecchietti sono molto piccoli. Io adoro i registi italoamericani, Scorsese tra tutti, ma i suoi boss sono dei geni, persone che muovono le cose. Io invece volevo fare una storia al contrario, di due gangster di periferia, due gregari, due che andavano a uccidere, ma che non sono mai stati e mai saranno due capi».
Qui il video completo del panel:
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