Close: i palpiti dell’adolescenza in un coming of age delicato ma troppo trattenuto. La recensione del film di Lukas Dhont

L’intenso rapporto tra due ragazzi di tredici anni, Léo (Eden Dambrine) e Rémi (Gustav De Waele), che passano le loro estati a scorrazzare in bicicletta, viene improvvisamente interrotto a causa di un tragico evento

Close: i palpiti dell’adolescenza in un coming of age delicato ma troppo trattenuto. La recensione del film di Lukas Dhont

L’intenso rapporto tra due ragazzi di tredici anni, Léo (Eden Dambrine) e Rémi (Gustav De Waele), che passano le loro estati a scorrazzare in bicicletta, viene improvvisamente interrotto a causa di un tragico evento

Close Lukas Dhont
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PANORAMICA
Regia (2.5)
Sceneggiatura (1.5)
Interpretazioni (3)
Fotografia (2.5)
Montaggio (2)
Colonna sonora (1.5)

L’intenso rapporto tra due ragazzi di tredici anni, Léo (Eden Dambrine) e Rémi (Gustav De Waele), che passano le loro estati a scorrazzare in bicicletta, viene improvvisamente interrotta a causa di un tragico evento. Lottando per capire cosa sia successo, Léo si avvicina a Sophie (Émilie Dequenne), la madre di Rémi.

Presentato in concorso al 75° Festival di Cannes, dove ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria, Close, ora al cinema con Lucky Red, è il secondo film del trentunenne regista belga Lukas Dhont, già autore dell’acclamato Girl, Camera d’Or alla miglior opera prima sempre a Cannes: una storia sulla ricerca dell’identità, raccontata mediante il legame tra due ragazzini uniti da un affetto fraterno. 

L’intento palese è quello di mettere in luce, attraverso il più classico dei coming of age e dei romanzi di formazione, il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, catturata con grazia e naturalezza dai due giovani protagonisti, e l’ispirazione di Close nasce da una visita del regista alla sua vecchia scuola elementare, che ha fatto riaffiorare in lui, a detta di Dhont, «quel tempo in cui era davvero difficile essere me stesso, senza filtri». 

«I ragazzi si comportavano in un modo, le ragazze in un altro, mi sono sempre sentito come se non appartenessi a nessun gruppo – ha aggiunto Dhont in proposito – Essere intimo con un altro ragazzo sembrava solo confermare le supposizioni che altri avevano sulla mia identità sessuale. Ho cercato di fare ordine tra questi sentimenti, mettendo qualche parola nero su bianco: amicizia, intimità, paura, mascolinità… e ne è emerso Close».

Close nell’affrontare tutto ciò esibisce un’evidente delicatezza, fin dalle prime battute e già dalla sequenza che inaugura il film: una corsa a perdifiato in cui i confini dei corpi sono dolcemente slabbrati dalla velocità, come se la memoria fosse lì a smussare le immagini e l’occhio del cineasta, discreto e accorto, non potesse far altro che simulare questo processo attraverso delle scelte visive il più epidermiche possibile. 

L’adolescenza è colta come detto nella sua fase più acerba e transitoria, eppure a differenza del suo esordio Girl, in cui la macchina da presa si stringeva intorno al fisico di un personaggio transgender con un formalismo di rara sostanza e pudore, la sensazione in questo caso è che Dhont sia già approdato alla maniera di se stesso: Close carpisce infatti palpiti e mutazioni della giovinezza con un controllo nuovamente impeccabile e molto rifinito ma purtroppo inerte e accademico, fiaccato da abusi estetizzanti che si fanno via via sempre più insistiti e dai pianti a bella posa che finiscono col riempire tanto le voragini narrative quanto le implicazioni psicologiche (nemmeno scomodate, a dire il vero), puntellando praticamente tutti i momenti chiave.

Il respiro del film si assottiglia così sempre di più fino a risultare addirittura paradossalmente mozzato, a dispetto delle belle premesse e dell’indubbio talento del regista fiammingo, al servizio di una di quelle opere dall’autorialità rigida e legnosa, che sembrano avere slancio più per un cortometraggio che per un lungometraggio. Dato che anche la diluizione del minutaggio appare più che mai pretestuosa, tra vari pedinamenti e ridondanze didascaliche – in primis le partite di hockey, messe lì a a delineare l’ovattato corpo a corpo col dolore, o i dialoghi scolastici all’aperto in cui si parla solo di calciatori senza badare alle generazioni, da Thiérry Henry a Kylian Mbappé  – scantonando così nel saggio di regia in buona misura sentito ma in definitiva asfittico e ombelicale.

Non va meglio coi personaggi di contorno, a cominciare dalla madre di Rémi, Sophie, interpretata dall’attrice belga Émilie Dequenne (premio per la migliore attrice a Cannes con il suo primo ruolo, in Rosetta del 1999 dei fratelli Dardenne), nient’altro che un pallido e lacrimevole bozzetto, nonostante il tentativo ostentato di agguantare un naturalismo che si riduce, a conti fatti, solo a uno specchietto per le allodole. Ed è un peccato, perché le bellissime interpretazioni dei due attori esordienti, davvero magnetici e sensibilissimi nell’evocare con tattilità un’omosessualità sul punto di sbocciare, avrebbero meritato miglior sorte.

Foto: Menuet, Diaphana Films, Topkapi Films, Versus Prod., VTM, RTBF

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