Nick, un giovane uomo affetto da delle problematiche psichiche piuttosto gravi, è nel bel mezzo di una seduta di terapia. All’improvviso suo fratello Connie (Robert Pattison) fa irruzione sul posto e strappa il proprio familiare dalle grinfie del medico di turno, intercettando il visibile disagio del ragazzo. Il legame tra i due, nonostante la premura con cui Pattinson gli rivolge le sue attenzioni e la propria irruenza, è tutt’altro che pacificato: Nick e Connie sono dei rapinatori, dediti a colpi carichi d’adrenalina, che non ammettono sbavature o errori e nei quali i due si fiondano in prima persona, nella maniera più fisica possibile.
Terzo film di fiction firmato dai fratelli Safdie, che fanno il loro primo ingresso nel concorso di Cannes dopo essere stati in passato alla Quinzaine, Good Time è un film elettrico e sovreccitato, che fa del movimento continuo e di un dinamismo drogato e senza esclusione di colpi il suo cuore pulsante. Una storia forte e vigorosa, divisa tra rapine da portare a casa, carceri opprimenti e ospedali alienati, che riproduce lo stesso disequilibrio delle vite dei protagonisti: delle esistenze acide e precarie, dove il rischio è una presenza costante e carica di morte e l’assenza di un destino che non li sbatta davanti alle proprie azioni un’utopia pressoché impossibile.
Oscillando tra malavita e donne non pacificate, tra inserti piuttosto sovraccarichi dal punto di vista visivo e sequenze di buon impatto estetico, Good Time, col passare dei minuti, diventa un film sempre più attento alla lucentezza e all’equilibrio della confezione: i nessi causa effetto si allentano fatalmente per lasciar posto a una crudezza che viene bilanciata da dei colori sgargianti ed elettrici, con musiche elettroniche e un tappeto di suoni di grandissimo pregio (il lavoro del sonoro è, in assoluto, uno dei punti di forza del film).
Usando come specchio per le ossessioni del protagonista una New York in parte livida e notturna ma in realtà accarezzata con luci al neon che di sordido e brutale hanno ben poco, i fratelli Safdie lasciano da parte l’approfondimento psicologico per concentrarsi su delle immagini estremamente rifinite. Il lavoro sull’atmosfera del film è dopotutto calzante e di sicuro le musiche, realizzate da Oneohtrix Point Never, musicista elettronico di Brooklyn, colpiscono costantemente nel segno.
In generale i due fratelli, legati dallo stesso legame di parentela che tiene stretti tra loro i due protagonisti del film (una premessa sicuramente suggestiva), lavorano sul genere in maniera ammirevole e controcorrente, scarnificandolo e agendo di sottrazione, per arrivare al cuore del thriller usandone esclusivamente gli elementi archetipici (corse, rapine, fughe), senza fronzoli.
Sono dei cineasti a 360° i Safdie (lavorano al montaggio e alla regia, alla sceneggiatura e alla recitazione), usano la pellicola e il 35 mm come una tavolozza sulla quale usare i colori per distorcerli puntualmente e mettere alla prova lo spettatore con delle soluzioni cromatiche impulsive, scostanti, quasi mai conciliatorie. Il loro merito più grande è però quello di regalare a Robert Pattinson la performance più convincente della sua carriera, un personaggio al contempo spaurito e sofferente, fragile e, solo in apparenza, impermeabile alle conseguenze del dolore che causa e che attraversa come un lampo nella notte.
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