Durante una notte piovosissima, una giovane madre in difficoltà (Lee Ji-eun) decide di abbandonare il proprio neonato in un baby box. Piuttosto che finire nelle mani degli assistenti sociali, tuttavia, il bambino è clandestinamente preso in custodia da due uomini (Song Kang-ho e Gang Dong-won) che sostengono di voler trovare per lui la famiglia migliore possibile nella quale crescere. Nel frattempo, due detective della polizia, che indagano sul caso da sei mesi, si mettono sulle tracce della coppia.
Dopo essersi affacciato nel cinema europeo girando in Francia Le verità (2019), film un po’ sparito dai radar dopo aver aperto Venezia, il cineasta giapponese Hirokazu Kore-eda è tornato sui sentieri e nei territori d’elezione a lui più cari, ritrovandoli questa volta più vicino a casa: non nel suo paese natale, bensì in Corea del Sud, dove per la sua nuova fatica ha scritturato in un ruolo da protagonista l’attore Song Kang-ho, divenuto nel frattempo una star internazionale dopo il clamoroso successo di Parasite.
Ne Le buone stelle – Broker, presentato in Concorso allo scorso 75esimo Festival di Cannes, Kore-eda torna infatti nuovamente ad affrontare, con l’encomiabile delicatezza che gli è propria, il macro-tema della famiglia, che aveva già sviluppato nei precedenti Father and Son (2013) e Un affare di famiglia (2018), Palma d’oro a Cannes l’anno prima del capolavoro di Bong Joon-ho, e che qui viene fatto risalire addirittura alla culla, prendendo spunto dal fenomeno scatole per neonati, inaugurate a Seoul nel 2010 e fenomeno che l’indurimento della legge coreana sull’adozione, che obbliga le madri single a registrarsi, ha accresciuto.
Il cuore del discorso sono ancora una volta le zone d’ombra tra genitorialità biologica e legami affettivi in grado di andare oltre i vincoli del sangue, che Le buone stelle – Broker tratteggia con poetica levità nella scansione di situazioni e dettagli, incontri e attraversamenti, con un andamento da road movie che in questo caso si fa particolarmente marcato ma senza mai un briciolo di attrito o di affaticamento nella messa a fuoco delle psicologie, dei bisogni e delle fragilità di tutti i personaggi. Questi ultimi vengono infatti docilmente intersecati e rimescolati, in un ricerca costante e struggente di nuovi possibili punti di contatto e genealogie alternative scaturite dall’accudimento e dal contatto umano, indispensabili anche quando (o forse proprio perché) improbabili.
La sensazione, al contrario, è che Kore-eda abbia voluto immediatamente riappropriarsi del tepore pudico e anti-retorico delle sue storie, della minuziosa poesia dell’ordinario che gli è cara, asciugando i conflitti il più possibile e bagnandoli di lacrime e non detti perfino più del solito, con una cura formale molto attenta a “mettere in quadro” scorci paesaggistiche e strade, neon e insegne. Come se la condizione di straniero e il fatto di girare in un un paese diverso dal suo avesse messo Kore-eda maggiormente all’erta, per non lasciarsi scappare neppure un riverbero dell’emozionante viaggio condotto in porto insieme ai suoi personaggi. Nelle sapienti mani del cineasta giapponese la famiglia non si riduce mai a un cappio, e in Broker è più che mai così, ma in un serbatoio infinitesimale di possibilità e orizzonti, di incontri riparatori e vuoti da riempire, in barba a qualsivoglia nozione giudicante di disfunzionalità.
Nonostante il senso di recherche che lo abita e il passo calmo e fermo nel tratteggiare praticamente ogni situazione o dialogo con la massima dedizione e abnegazione possibile, eppure senza mai farne sentire il peso, anche Le buone stelle – Broker, proprio come tutti gli ultimi film di Kore-eda, è un film che getta alle ortiche ogni paravento autoriale per abbracciare un’idea di dialogo col pubblico – cinefilo, certo, ma non esclusivamente – più largo possibile: una nozione di racconto emozionante e popolare sottilissimo e impalpabile, sempre in grado di scaldare il cuore e di fare tantissimo con pochissimo, dato che a Kore-eda paiono bastare anche luoghi transitori e malinconici qualunque, come un autolavaggio o una ruota panoramica, per commuovere senza artifici né retorica, scegliendo la via della grazia e della misura.
Foto: Zip Cinema
Leggi anche: Le verità, la recensione del film di Hirokazu Kore-Eda con Catherine Deneuve e Juliette Binoche
© RIPRODUZIONE RISERVATA