Stare comodi o stare bene?

Stare comodi o stare bene?

Stare “comodi” è una cosa. Stare “bene” un’altra.

Quando ti abitui a stare in una posizione, ci stai comodo. Penso alle ragazze che ho conosciuto che hanno fatto danza per anni nella loro infanzia. Loro stanno in posizioni di riposo che a me fanno star male solo a guardarle. Glielo fai notare, chiedi loro se davvero stare accovacciate in quella maniera, con le gambe disarticolate, o stare coi piedi in “prima posizione” a loro non faccia fatica, e loro ti rispondono che invece no, figurati, stanno comode. Io, che in quella posizione non riuscirei nemmeno a immaginare di starci. Figuriamoci starci comodo.

La comodità è abitudine. Magari ti ritrovi a fare sempre una serie di ruoli, una serie di film in cui magari sei anche bravo, eh, ma sei sempre bravo uguale. Quando uscì Il figlio più piccolo, vinsi tutti i premi possibili che si potevano dare a un esordiente (il Nastro d’argento, il Globo d’oro, il Graal… tutto!) e iniziarono ad arrivarmi proposte su proposte per fare sempre lo stesso ruolo.

Avrei dovuto accettarle, penso adesso. Avrei comprato casa. Invece decisi di aspettare, vedere, capire. Sono bravo, pensavo, devono solo capirlo. Ci vorrà pochissimo tempo, pensai. Dammi qualche anno. Ne sono passati dodici. Mi ricordo, però, che mi impuntai. Non volevo fare sempre lo stesso ruolo. Anche perché, tra i tanti, ne scelsi uno, piccolo, un cortometraggio del progetto di Banca Intesa Per fiducia. C’erano più soldi lì che nelle opere prime indipendenti. E allora accettai.

Bum, rivinsi il Nastro d’argento nove mesi dopo aver vinto il primo, come attore di cortometraggio, appunto. Una soddisfazione immensa. Il mio piccolo Omero (Bello-di-nonna) mi regalò di nuovo quel pezzettino d’argento e pensai che quel ruolo non lo volevo fare più. Ci misi anni per farne uno simile, facendo Isidoro in Easy – Un viaggio facile facile. Bum, candidatura ai David e Ciak d’oro (si può scrivere su Best Movie “Ciak d’oro”? O prende fuoco la rivista? E poi, quale delle due?) Allora uno pensa che forse certe cose gli vengono meglio delle altre. Però, la verità, è che un sacco di gente mi ferma ancora per Ris Roma, una serie televisiva di quando ancora si chiamavano fiction in cui facevo il supercattivo.

Una cosa, insomma, che con questi personaggi buoni, dolci, delicati che tanti premi mi avevano portato, non solo non c’entrava niente, ma ci andava in antitesi pura. Eppure, la gente ancora mi ferma. E la serie è finita nel 2013. Io sto comodo in certe cose. Sono più vicine alle mie corde, forse. O forse proprio perché lontane mi permettono di “spingere” ancora di più senza paura. “Comodo”. Che non vuol dire “Bene”. Io volevo stare bene, perché a stare comodo come se avessi fatto danza da bambino e oggi fossi abituato a stare in prima o accovacciato, non sono capace. Ho le ginocchia che chiedono pietà ai chili di troppo, le caviglie le ho perse nel ’98 e i piedi stanno sempre fuori asse nel tempo e nello spazio. Però, onestamente, così sto bene.

Amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore lunga tutta la vita, diceva giustamente Wilde. Io non sono bravo con le storie d’amore. Ma sto imparando. E per ora mi frequento. Usciamo a cena, io e me stesso, ogni tanto. Vediamo un po’, facciamo che me la do, un’opportunità. Non sarò bello, ma piaccio. Perché va bene citare Wilde, ma alla fine, evviva Jerry Calà!

 

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