Questione di vanità

Questione di vanità

Vanità. Decisamente il mio peccato preferito!» diceva il Diavolo Al Pacino al povero Keanu che stava passando al lato oscuro.

La vanità. Quella cosa che ci vorrebbe tutti sui red carpet a far vedere quanto fighi siamo. A sfoggiare “l’outfit” giusto per l’occasione, magari eccentrico e\o vistoso, che importa. Anzi, meglio. Così che si possa parlare di noi. «L’hai fatto anche tu, hai messo un paio di Nike sotto lo smoking ai David!». Vero a metà. Io ho sempre messo un paio di Nike nuove a ogni presentazione, a ogni film. Da sempre. Dal primo. Poteva colpire chi non mi conoscesse, ma chiunque avesse una minima idea su chi o cosa fossi, si aspettava quel paio di sneakers. Ero solo coerente con me stesso. Lo sono. Da sempre. Ed è il motivo per cui sto scrivendo queste righe adesso. E, di certo, lo facevo per me, non per qualcun altro. Era il film a parlare. Perché, poi, se restiamo nel Sacro, nel primo capitolo di Ecclesiaste la vanità è definita in maniera specifica: correre dietro al vento. E io sono troppo grosso per inseguire Eolo.

Eppure, anche a me piacciono i red carpet. Tanto. Quando su quel tappeto c’è qualcuno che presenta e spinge un film, quando c’è qualcosa da raccontare. Se ce n’è uno in cui non c’entro, mi irrigidisco, un po’ mi nascondo e spesso mi sento lo stomaco in subbuglio. Non ho motivo di esserci. Certo, magari la mia presenza racconta il mio supporto. La mia vicinanza. Ecco, allora qualcosa racconta. E racconta una storia.

La mia, quella di un’amicizia, del rispetto, di una vicinanza. Ma è il film che deve parlare. Altrimenti è tutta vanità. Correre dietro al vento. Inutile. Dannosa, molto spesso.
Continuo a pensare che sia il film, l’unico protagonista in scena. Noi siamo comprimari. Se funziona lui, allora va tutto bene. Altrimenti, di che parliamo?

Se arriva una star in pantaloncini, magari un po’ remissiva, e poi ha fatto un filmone, con una grandissima preparazione e un ottimo risultato, è sempre meglio della star bella bellissima ma che no, non è stata brava per niente. Però ha tanti di quei follower che siamo tutti felici di averla sul nostro tappeto! Ah, è scarsa? Il film è brutto? E a chi importa? Ecco, a chi importa? Se importa davvero solo a me, allora, vuol dire che quello sbagliato sono io. Ma forse funziona così, e io adesso sono solo arrabbiato.

Mi chiedo però come mai quest’anno a Venezia ci fossero pochissimi miei colleghi, su quei tappeti, e tanti outfit perfetti, provocanti e prestigiosi addosso a chi un film, probabilmente, non l’ha nemmeno mai visto. Forse perché noi eravamo a casa a sputare l’anima e il cuore per riuscire a scrivere, girare e recitare un film all’altezza. Da 90 anni esistono i festival di cinema, ed esistono per il cinema.

Dei geni della comunicazione hanno trovato il modo, a suo tempo, di creare “scandalo”, per richiamare attenzione. Leggere quello che racconta Enrico Lucherini è sempre meraviglioso. Quelli sì, che erano bei tempi. I tempi in cui le star erano attori e attrici eccezionali che facevano film grandiosi e portavano acqua al mulino del film. Le star.
Forse noi ci meritiamo questo. Le e gli influencer. E i loro outfit. O forse sto solo rosicando perché io sono davanti a un computer a scrivere di loro che invece sono lì. Senza un film. O magari con. Con un film. Di cui nessuno parla perché, in fondo, a chi importa? Scusate, è passato un palloncino.

Corro dietro a quello, almeno ho un obiettivo.

Il vento, lo lascio a voi.

© Warner Bros., New Regency Productions, Kopelson Entertainment

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