L’amore copre una moltitudine di peccati. Parola per parola. Una di quelle frasi belle su cui ci puoi costruire una religione. E così succede. Io ci credo. L’amore copre tanti peccati. Tantissimi. L’amore per questo lavoro ne copre talmente tanti da farlo a noi, il peccato.
Domenica. Sono sul letto, stanco. Sto finendo il trasloco, l’ennesimo, il mio diciottesimo. Che ci crediate o no, sono maggiorenne di “traslocatura”. Quando la precarietà e l’affanno sono diventati routine, e dici di non farci più caso e invece te ne accorgi eccome.
Dovrei essere in giro a promuovere un film, e invece la vita, il destino e l’ego di qualcuno ha deciso che sto bene qui, a traslocare e a riposarmi qualche minuto sul letto. Chiamo la mia amica Giulia. Lei è una formidabile scenografa e arredatrice. Penso a lei e penso a quando eravamo insieme al Centro Sperimentale. E penso ad Andrea, che oggi ha due candidature al David e 20 anni fa ci preparava il tè caldo all’uscita da scuola.
Andrea, il giorno del suo compleanno, dormiva da ore quando l’ho chiamato, perché esausto dalle giornate di set che sta portando avanti. Giulia fa 15 ore tra una cosa e l’altra, preparando il set per il giorno successivo e passando da quello in cui, invece, stanno girando. «Chi te lo fa fare?» chiedo. «Non lo so», risponde. Rispondiamo. Perché lo sappiamo, invece. Ma non vogliamo dirlo. È amore. Che copre la moltitudine di peccati. Gli straordinari necessari, le sveglie a notte fonda, i chilometri macinati per raccattare un elemento fondamentale, i pasti freddi, in piedi, al volo, fatti dopo ore per recuperare il tempo perso. E in tutto questo la convinzione di essere fortunati a fare il nostro lavoro. Perché lo amiamo. Io lo amo ancora. Anche se mi ha tradito troppe volte. E so già che lo farà ancora. Ma sono innamorato, e copro i peccati. La moltitudine.
E mentre Giulia smette di parlarmi al telefono perché si è addormentata, io continuo a parlare, perché a qualcuno devo raccontarlo. Il tradimento. La rabbia. Le schegge di rancore. Il non poterlo dire a nessuno. Che oggi mi chiama Francesca per chiedermi informazioni su un produttore con cui ho lavorato. «Mi ha pagato tutto», rispondo. Perché so che le interessa solo quello. Perché oggi il lavoro più faticoso consiste nel farsi pagare, perché oggi io ho valanghe di crediti da film che sono finiti anni fa. E sto ancora aspettando. Ma le bollette, non capisco come mai, non posso pagarle in “settimana prossima risolviamo”, soprattutto se di settimane ne sono passate settanta. Ho fatto un film nel 2009 per cui mi manca l’ultima rata di pagamento. Quella produzione è fallita due volte, nel frattempo. E il film non è mai uscito. Ora, non crediate, magari meno, eh, ma succede anche a Favino, Germano, Gifuni. I grandigrandi.
Avanziamo soldi per anni e poi, semplicemente, smettiamo di pensarci, perché altrimenti sarebbe peggio. Aspettiamo che escano film a cui abbiamo dato l’anima e che poi i distributori decidono di non far uscire mai. Tanto hanno preso i soldi dal tax credit, dal Ministero, dagli enti… che importa se non esce? O magari hanno trovato distributori incapaci. O magari niente, succede e basta. E allora io e Giulia ce lo chiediamo ancora: “perché?”. Perché siamo innamorati. Perché è il lavoro più bello del mondo. Perché non sapremmo fare nient’altro. Perché l’arte dell’amore, in fondo, è solo arte della perseveranza. L’ha detto Albert Ellis. Che non era un poeta, un artista, un cantore… no, è il tizio che si è inventato la Psicoterapia. E poi ci ha fatto i soldi. Siamo innamorati, noi. Tanto. Ma il nostro diventa un amore tossico. E non sappiamo nemmeno a chi raccontarlo. E allora perdoniamo, e facciamo finta di non ricordare, mai. E copriamo i peccati. Tanti. Perché alla fine ne vale la pena.
Perché tutto quello di cui hai bisogno, alla fine, è l’amore. Anche un po’ di cioccolato, però, non fa male…
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