La cura

La cura

Faccio il nodo alla cravatta. Lo rifaccio. Lo rifaccio ancora. Deve arrivare alla cintura, certo. Il problema grave per lui è che, finché arriva lì sotto, deve fare tutto un lungo arco: spazio e massa che non può affrontare una cravatta normale. Metto il gilet, lo chiudo, così copre la lunghezza sbagliata della cravatta. Potrei togliere la cravatta. Potrei non mettere la giacca. Ma poi mi sentirei ancora più a disagio. I capelli rimasti sono quelli che sono, sagomo un po’ la barba e pulisco da solo il collo, mi guardo allo specchio: meglio di così non si può fare. Scendo in ascensore dal sesto piano. Il mio amico Antonio è accanto a me, non mi ha lasciato un minuto solo. Io sono in silenzio. Qualcuno ci apre lo sportello della macchina, Antonio sorride. “È la prima volta che mi aprono lo sportello in vita mia”, dice. Sorrido anch’io. E poi torna il silenzio.

La macchina va, non ha nemmeno fretta, siamo perfettamente in orario. Eppure sale l’ansia. Silenzio ancora. “E se non piace?” chiedo. Piacerà, risponde. “Ma che ne sai?” chiedo. Lo so, dice. Lui lo sa. Io no. Io che c’ero. Io che ho passato quattro mesi a studiare, a prepararmi mentalmente e fisicamente, che da obiettore di coscienza ho sparato quattromila pallini alle lattine in campagna, per abituarmi al gesto dello sparo. Che ho passato una settimana ad affilare coltelli sulle pietre solo perché era la scena iniziale del film e il polso doveva essere perfetto. Che ho visto American Sniper sei volte in due settimane, che ho camminato e corso sulla spiaggia con gli anfibi militari per capire cosa succede alle caviglie e abituarmi. Lui lo sa e io no.

Le recensioni iniziano ad arrivare, sono entusiastiche. E io ancora no, non ci credo. Perché non importa che piaccia a me. Ai giornalisti. Ad Antonio, che mi vuole bene. Deve piacere a voi. Io non lo pago il biglietto. I critici neanche. Nemmeno Antonio l’ha pagato, stavolta. Voi sì. Voi dovete uscire in pieno inverno da casa vostra, piove, il cinema che avete scelto è in centro: è impossibile parcheggiare. In Tv c’è la partita, è stata una giornata difficile. Eppure voi decidete di andare a pagare quel biglietto. E stamattina è anche arrivata la bolletta.

Voi avete il DIRITTO di vedere me che ce la metto tutta. Forse il film potrà piacervi o meno, ma non potrete dire che è fatto “male”. Raffazzonato. Impreciso. Sciatto. La più grande canzone d’amore italiana non usa mai, in tutto il testo, in nessuna declinazione quel verbo. No. Parla solo di cura. Avere cura. Voi meritate la cura. Accuratezza. Potrete e legittimamente avrete il diritto di dire che non vi è piaciuto. Che pensavate in qualcosa di diverso. Ma non permetterò che possiate dire che non ho messo cura anche solo in un fotogramma. Perché oggi, lo spettatore che entra in una sala, che non ascolta le cassandre che gli dicono che tanto il cinema è morto, che ancora cerca e ricerca il “Cinema”, che sia una commedia, un film di super eroi o un film drammatico ambientato nella mafia pugliese ispirato alla tragedia del grande re scozzese con un ciccione protagonista che però non si è risparmiato mai mai mai; che sia una qualsiasi di queste cose o che sia, a turno, tutto questo, quello spettatore, per me che faccio questo mestiere e che vivo solo e soltanto dall’essere in grado di emozionarlo in qualsiasi modo, è un essere speciale.

Ed io, avrò cura di te.

 

© One More Pictures, Rai Cinema (1)

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