La luce si spegne. Quando vuole lei. Come vuole lei. Non ti avvisa. Si spegne e basta. Magari sei sul set, magari sei a pranzo, magari sei in metro, peggio se sei in treno. Quando sei in aereo ti fa impazzire. Ma spesso si fa accogliere dal buio. La luce si spegne.
Soffro di attacchi di panico da quindici anni. Non so come descrivere cosa voglia dire. A me, che le parole non mancano mai, ne mancano tante per spiegarvelo. No, non le ho perse. Non le ho mai, semplicemente, avute. La luce si spegne e tu con lei. E sì, spesso succede di notte. Perché la sensibilità, l’empatia, la capacità di raccogliere, ascoltare, raccontare e costruire emozioni ti costringe ad essere sempre in bilico tra la luce e il buio.
Se devi poter emozionare così tanto, devi essere capace di emozionarti così tanto. E questo vuol dire spingere sempre verso l’estremo le emozioni. Io ho gli attacchi di panico. Li gestisco, quasi sempre. Quasi, vuol dire che ci pensa la chimica, di solito, a risolverli. La bravura, oggi, sta nel riconoscere che il filamento di tungsteno messo sotto vuoto nel vetro sta per raffreddarsi o fulminarsi. E quando succede, occuparsi di fare in modo che no, la luce non si spenga.
Se non vi è mai capitato, cosa che vi auguro, vi auguro di cuore, non posso spiegarvelo. Se vi è capitato, purtroppo, non ho bisogno di cercare quelle parole, perché sapete benissimo di cosa sto parlando. E poi ti capita sul set e lì impazzisci. Perché il lavoro è l’unica cosa che ti rimane e che ti protegge. E che vorresti proteggere. E invece ci caschi, ci caschi anche lì. E ti guardi attorno in quel momento in cui il fiato ti manca, in cui senti battere forte il cuore, in cui ti chiedi “perché?” e sai che non esistono risposte. E sudi. E arriva la truccatrice che ti dice “Sei lucido”. No, amica mia, non sono lucido affatto, in questo momento. Sono offuscato, ottenebrato, spaventato. Ed è lì che vince lei: la paura.
Ti guardi attorno e decine e decine di persone si muovono veloci come farfalle mentre tu ti senti punto da mille api. E sai che non possiamo perdere tempo, e sai che non puoi essere il motivo per cui si fermeranno. Anche se sì, magari sei stato fermo tu due ore per dar tempo al reparto fotografia di fare il suo lavoro. E allora, mentre l’affanno sale, chiedi un bicchier d’acqua, chiedi di poter uscire un attimo, chiedi di poter far pipì per avere una scusa e lasciare tutto tre minuti, non di più. E preghi, un dio che non hai, che quei tre minuti bastino a te e alla paura di andare via. Perché altrimenti non si chiamerebbe attacco di panico se non fosse solo paura. E la paura si combatte col coraggio. Quello che ti manca in quel momento. O con la lucidità. E tu sei lucido solo in fronte per colpa del sudore. O con un abbraccio. E per fortuna, sul set, a quel punto, arriva. Arriva dai macchinisti, dagli elettricisti, dal fonico che sente nelle sue cuffie quanto stai respirando male, dall’operatore che vede che stai cambiando colore, tenendo l’occhio nella loop della macchina da presa. Arriva dalla sarta che con la scusa di sistemarti ti stringe forte. Arriva. Perché il set è quello. È famiglia. E solo allora ti accorgi che hai provato a nascondere qualcosa di cui si sono accorti tutti ma che nessuno ha sottolineato.
Non per sottostimare, non per banalizzare. Ma perché passa. Passa sempre. Passa tutto. E allora il respiro torna piano piano normale. E tu pensi di averla sfangata in pochi minuti. E solo allora capisci che ne sono passati venti, trenta, e nessuno si è chiesto perché. Il set è così. È famiglia, è casa. E poi, a fine film, tutte quelle persone che ti stanno salvando la vita, semplicemente non le vedrai più. E dovrai affrontare un lutto, ogni volta, più grande. Ogni volta più forte. E non ti abitui mai. Ecco perché costruire una squadra per fare un film richiede uno sforzo enorme, per creare l’alchimia perfetta. Ci sono persone così. Persone capaci di ricominciare infinite volte, senza paura di sbagliare, scriveva Banana Yoshimoto.
Io, da grande, voglio essere così.
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