Al posto di Barney ci sono io

Al posto di Barney ci sono io

Mi chiamo Barney Gumble, ho 40 anni, sono single e bevo”. Con queste parole inizia un capolavoro di cortometraggio che riuscirà a vincere il “Film Festival di Springfield”, sesta stagione dei Simpson. Ora, non fosse per il nome, potrei dire le stesse cose. Certo, non sono finito agli Alcolisti Anonimi, però sì, ogni tanto mi ritrovo a citare queste parole e a pensare, in cuor mio, che al posto di Barney ci sono io. Non sono ancora giallo, ma non si può mai sapere.

Lo sapevo, era nel destino stesso del cammino che avevo scelto. Un pomeriggio, a fine lezione, primo anno del Centro Sperimentale, Giancarlo Giannini – che era il supervisore del corso e soprattutto una specie di dio asgardiano della recitazione, una specie di Thor e Loki fusi in un’unica divinità – sganciò la mina: “Passerete la vostra vita ad aspettare che il telefono squilli!”.

Bùm. A vent’anni fai il tuo sorriso sornione e nemmeno hai bisogno di dirlo, ce l’hai scritto in faccia, che tu col cavolo che farai quella fine.

E poi, quella fine, la fai. Per forza. Perché noi siamo con una tavola da surf a cercare di tenere l’equilibrio dopo aver scelto di surfare sulle onde di Point Break, quelle più difficili.

E poi è arrivato anche il Covid. E ai provini non ci vai più nemmeno.

Adesso ti danno il testo e ti dicono di fare un “selftape”. Praticamente: chiedi a qualcuno di darti le battute e di reggere il telefono mentre ti fai un video, e inizi a pregare che lo vedano. Certo, c’è da dire che i direttori di casting italiani sono tra i migliori in assoluto e li vedono tutti. Però tu, al terzo rifiuto, inizi a cercare colpevoli. E con qualcuno te la devi prendere. E allora, sicuro, non l’hanno visto bene. Colpa loro. E non hai mai il coraggio di dirti che quel qualcuno, il colpevole, sei tu. Perché sei tu. E io ne sono certo, perché tutte le volte che non ho passato un provino, ormai lo so, è sempre stata colpa mia. Poi non è vero, eh: magari arriva semplicemente uno più bravo o più giusto. Perché la verità è che di “raccomandati”, ragazzi, ce ne sono ben pochi. Pochissimi. Sono solo un altro alibi che ci diamo quando non abbiamo quel coraggio lì, di dire che è colpa nostra. Io l’ho capito, che era colpa mia. Te ne accorgi quando vai a fare un provino e ti rode, pensi che il mondo ce l’abbia con te e ti comporti di conseguenza. Ma chi cazzo te lo fa fare? Ma stai a casa a vedere un film e poi a scrivere sui social che quel film era una merda. Eh, già. Agli attori sotto i 30 anni bisognerebbe levare i social. Aspettate un attimo a urlarmi “Ok, boomer!” perché avreste ragione ma forse ne avrei anche io. Lasciate i commenti perentori e tranchantai vecchi come me e ai tuttologi di internet, a quelli che non ce l’hanno  fatta e che magari non c’hanno nemmeno provato, e insultano tutti affastellando le loro motivazioni di quegli alibi che dovremmo cercare di evitare. Il livore, voi, non ve lo potete permettere. Io ho smussato gli angoli. Me li ricordo ancora quegli “Ammazza che merda!” a dei film che poi, quando mi ci son ritrovato io, mi han fatto vergognare di averli detti. Perché puoi anche vincere a Cannes e Berlino, ma certi scheletri ce li abbiamo tutti. Per fortuna.

Perché vuol dire che abbiamo avuto una carriera lunga. Quelli, i rancori, lasciateli a chi fa un altro mestiere ma che vuole insegnarvi il cinema. Che anche fare il critico è un lavoro, e non basta una pagina social o un profilo. Anzi. Non basta un “seguito”. Perché poi, da duemila anni, la gente sceglie Barabba. E poi il telefono non squilla mai. Perché passate per stronzi. E per essere stronzi e lavorare tanto, bisogna che siate bravi bravi bravi. E ce n’è già uno, così, in Italia. Ed è quello che ha 40 anni, è single, e beve. E magari vince il Film Festival di Springfield. Ma non disperate: la statuetta, alla fine, la prende sempre il vecchietto a cui tirano una pallonata all’inguine.

Provate almeno a fare la parte del pallone. Io faccio il vecchietto.

© Getty Images

 

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