Astolfo: la malinconia garbata di Gianni Di Gregorio approda con dolcezza alla commedia sentimentale. La recensione

Il nuovo film del regista di Pranzo di ferragosto è ora al cinema, distribuito da Lucky Red, dopo il passaggio alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Grand Public

Astolfo: la malinconia garbata di Gianni Di Gregorio approda con dolcezza alla commedia sentimentale. La recensione

Il nuovo film del regista di Pranzo di ferragosto è ora al cinema, distribuito da Lucky Red, dopo il passaggio alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Grand Public

Astolfo
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PANORAMICA
Regia (3)
Sceneggiatura (3)
Interpretazioni (3.5)
Fotografia (3)
Montaggio (3)
Colonna sonora (2.5)

Astolfo (Gianni Di Gregorio), placido pensionato romano, viene sfrattato dal suo appartamento e decide di tornare a vivere nella casa di famiglia, un palazzotto un tempo nobiliare e oggi in sfacelo, in un paesino dell’Italia centrale. Trova un paio di stravaganti abusivi che vivono lì, un sindaco sgradevole e impiccione, un vecchio amico che si è arricchito. 

E, senza volerlo, senza cercarlo, trova anche l’amore: Stefania (Stefania Sandrelli), una signora vedova che il figlio vorrebbe confinare al ruolo di nonna e che invece è piena di voglia di vivere. Tra un prete dispettoso, la luce tagliata, i coinquilini eccentrici e i giovani presuntuosi (tra cui anche Alberto Testone, sosia romano di Pasolini), Gianni Di Gregorio scrive (con Marco Pettenello) e dirige un film che ribadisce lo statuto garbato del suo cinema senile, abitato da piccolezze irrinunciabili, da agi minimi ma indispensabili e il più delle volte addirittura fondamentali. 

Rispetto ai suoi film passati, in Astolfo Di Gregorio rende ancor più solida l’adesione autobiografica al suo personaggio, ricoprendolo di dolcezza opaca e fiaccata dal tempo ma ancora indomita. Astolfo vive notti tribolate e insonni, scandite da ticchettii costanti, mentre la sua quotidianità fuori porta, lontana in questo caso dalla Roma trasteverina cara all’autore di Pranzo di ferragosto, nonostante mille impicci di paese preserva la sua vivacità solare, il passo ironico e bonario.

Astolfo si adegua alla vita in provincia, si arrangia, vivacchia, si azzuffa con il sindaco, ritrova un vecchio amico, prende in casa un paio di scapestrati come lui, cultori del buon bere e del vino («Non è vero che al bar si perde tempo, il bar salva la vita!»), disincantati ma sempre un po’ meno buffi e un po’ più taglienti del protagonista. Poi incontra Stefania, una donna della sua età, e si innamora: è un salto non da poco, che conduce il film verso la commedia sentimentale pura e semplice, genere col quale Di Gregorio si dedica con la sua abituale svagatezza, trovando nel passo a due con Sandrelli una rinnovata e inedita vitalità, oltre che nuove forme di solarità, allegria e spensieratezza, particolarmente preziose proprio perché agguantate a fatica e non senza qualche riluttanza.

«Sicuramente il lungo isolamento dovuto alla pandemia e un acciacco di salute hanno scatenato una reazione straordinaria e incontrollata, considerando il fatto che mi sono messo a parlare d’amorealla mia età», ha detto Di Gregorio a proposito del film, che non a caso presenta un alter ego più affaticato del solito ma anche finalmente, deliberatamente innamorato, a dispetto di tutte le proprie insicurezze su ciò che potrà mai offrire, lui, a una signora. A non venir meno, tuttavia, sono il tratto lieve del suo approccio all’esistenza e la classe proletaria ma anche in qualche modo signorile del suo incedere, tanto che a un certo punto Astolfo, chiamato da tutti “Il professore!” e salutato sempre con un certo colloquiale entusiasmo per il suo passato da insegnante, si mette a declamare addirittura Le ricordanze di Giacomo Leopardi: «Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi sul paterno giardino scintillanti, e ragionar con voi dalle finestre di questo albergo ove abitai fanciullo, e delle gioie mie vidi la fine».

Questo passaggio letterario è fondamentale per cogliere lo spirito di Astolfo e la malinconia arruffata ma inalienabile con cui il film tratteggia gesti e situazioni, canzonando la sbruffoneria dei propri coetanei («Non siamo vecchi, siamo leoni!») e giocando di rimessa per rimanere ancorato alla mitezza del proprio disimpegno. Per scaldare il cuore possono così bastare, nel disegno complessivo di un film esile e lineare ma mai banale, cose semplicissime: un film visto insieme a Stefania (Pane, amore e fantasia) o da lei in solitaria (Colazione da Tiffany), ricacciando a fatica la lacrimuccia, l’aria buona del paesello, dove tutto costa meno e le botteghe non si chiudono ma si aprono in barba ad amministrazioni sciocche e distratte, una chiesetta visita il sabato, il tentativo di un bacio che copre a fatica l’imbarazzo e l’eccitazione di un nuovo amore. 

Una disposizione d’animo, quest’ultima, in scia alla quale si può ritrovare il senso (e il sentimento) di un tempo che si credeva perduto e che invece è rimasto lì, congelato nell’attimo, con tutte le sue inattese e inesauste possibilità, in attesa soltanto di essere colto – o forse soltanto ritrovato – nell’età del disimpegno e del candore. Un tempo della vita nel quale il personaggio Astolfo, con tutta la disarmante e tenera schiettezza tipica dei personaggi di Gianni Di Gregorio, al cospetto di Vittorio De Sica maresciallo può ammettere candidamente «Io non mi ricordavo nulla» e non essere giudicato, suscitando solo affetto ed empatia. 

Foto: Bibi Film, Rai Cinema

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