Dal regista di La profezia dell’armadillo (2018) ecco un horror rurale dai contorni soprannaturali che attinge alla figura folklorica della pantafica con cui, nelle credenze popolari, specialmente di Marche e Abruzzo, si spiegava irrazionalmente un particolare disturbo del sonno che provoca paralisi del corpo e allucinazioni.
Protagonista è Kasia Smutniak, nel ruolo di una madre single che con la sua bambina lascia la città per trasferirsi in uno sperduto casolare da ristrutturare in una remota zona del sud Italia. Le ragioni di questo cambiamento così radicale non vengono mai veramente spiegate, anche se si intuisce che all’origine ci sia una situazione famigliare complessa e spiacevole.
Fatto sta che, tra la nuova casa (non proprio ospitale) e gli abitanti del paesino arroccato tra piantagioni di zafferano, alture e un lago, non è che la nuova collocazione lasci presagire qualcosa di buono. Tanto più che sono gli stessi paesani a suggerire subito alla donna di levare le tende. Di bambini nessuna traccia (a parte uno che si affeziona alla figlia) perché, nei giorni che precedono la festa del paese in onore della Pantafa, è costume che rimangano in casa.
Com’è facile prevedere la storia di questo nucleo famigliare è destinata a peggiorare gradualmente, vuoi perché la presenza immanente della pantafica sembra aver preso di mira la bimba della Smutniak; vuoi perché la stessa Smutniak inizia a manifestare seri problemi di insonnia. Visto lo zampino di fondi argentini, ci si aspettava che un film come Pantafa potesse conciliare i riguardi che un certo filone di genere sudamericano, tipico di quell’area geografica, nutre verso il nostro immaginario orrorifico di una volta (vedi il caso, per esempio, dei fratelli Onetti, quelli di Francesca e Abrakadabra).
Inoltre poteva essere interessante e di stimolo anche per altri rivolgere, finalmente, la nostra attenzione a tutto un mondo fantastico del nostro folklore non ancora battuto. E invece Pantafa è un’occasione mancata. Un po’ perché – spiace dirlo – manca dei tempi giusti e di una visione horror consapevole. Un po’ perché tutto quel che può esserci di buono nel film viene sprecato in nome di un riutilizzo di luoghi comuni triti e ritriti: la vecchia dai modi di fare ambigui, le apparizioni del lupo, il bambino misterioso, gli abitanti del posto che sanno ma non dicono, la donna problematica.
E poi, soprattutto, la figura centrale della pantafica che, tra movenze e lineamenti, sembra la cugina di ennesima generazione di Samara/Sadako (The Ring), Kayako (The Grudge) e tutte le decine se non centinaia di entità pseudo-demoniache che da trent’anni popolano il cinema dell’orrore. Non chiediamo la perfezione, ma almeno qualcosa di nuovo. O se proprio proprio si vuole guardare indietro, che i riferimenti non siano limitati al solito substrato. Perché non riscoprire un Jean Rollin, piuttosto?
Foto: Fandango, Rai Cinema
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